sabato 12 dicembre 2015

La grande umanità di un piccolo mondo antico: Piscinola... di Pasquale di Fenzo


Tra i tanti ricordi indelebili della mia gioventù, un posto speciale meritano i tanti venditori ambulanti e stanziali che un tempo popolavano le strade antiche della mia Piscinola... Rievocarli oggi, a distanza di tempo, mi rende orgoglioso, perché il loro ricordo susciterà sicuramente nei tanti lettori di queste pagine, dolci nostalgie e piacevoli carezze al cuore...!
Sulla piazza Bernardino Tafuri, don Eugenio 'o putecaro, con la moglie Peppenella, gestiva una storica e rinomata salumeria, che fu il primo esercizio commerciale a dotarsi di un telefono pubblico, tanto da essere considerato un vero e proprio "centralino telefonico" di Piscinola. La cabina telefonica, che si trovava all'interno del negozio, si può dire che rivoluzionò le abitudini di questo antichissimo borgo, fino a quel momento un po' lento e chiuso in se stesso... 
Sullo stesso lato della piazza c'era Pascaluccio 'o chianghiero e, poi, subito dopo l'angolo di Sott''a Chiesa, c'era il primo bancolotto di Piscinola. 
Proseguendo verso la cantina di Lorenzo (che fu poi di Pippotto), c'era un esercizio di tabacchi gestito da Idarella, mamma di Giggino Sica e, ancora oltre, la vecchia sezione del partito "PCI". 
Rusina d''e pazzielle era conosciuta come Rusina 'e 'Ndriana (forse la mamma si chiamava Andreana) e aveva il suo negozietto subito dopo l'ingresso della sacrestia della parrocchia del SS. Salvatore.
Mastu Giuvanne, soprannominato 'e piscitiello, era un bravissimo muratore che prendeva pure piccoli appalti e per questo era detto 'o masticiello, figlio di don Rafele l'indiano e fratello di don Gennaro mochia mochia; quest'ultimo aveva, invece, una impresa edile molto più sviluppata. 
Pinocchio che aveva un negozietto Sott''a Chiesa, oltre a riparare biciclette, le noleggiava pure (50 lire mezz'ora), ma noi bambini gliele riportavamo dopo mezza giornata, lasciandole lontano dalla sua bottega, per sfuggire ai suoi ricorrenti rimproveri. 
Per chi era del Cap''a Chianca non si può non ricordare della puteca di Giulia 'a putecara, una vecchina dolcissima che spesso regalava qualche caramella a noi bambini. Tanti erano gli aneddoti raccontati da Don Gaetano, detto "'o Lavoratore", figlio di Donna Giulia. Raccontava quando la gente andava a spendere con la "cartella" e diceva: "Don Gaetà, segnate, avete scritto?...E quando teneto 'o tiempo, ve lo leggete pure...!"
Rafele 'o cauciaiuolo era detto pure 'o menestaro, non perché preparasse minestre, ma perché amministrava pure piccoli condomini. Suo figlio Vincenzo, soprannominato 'on Vicienzo 'o smemorato, era un bravissimo imprenditore edile e un gran signore. Gigino 'o sciuraro ('o russo) era figlio di Mario Sica, il primo vero fioraio di Piscinola.
Su Pascalino d''a lavanderia vale la pena spendere due parole. Prima di tutto, oltre alla lavanderia, aveva un bazar che era riduttivo definire merceria, perché vendeva praticamente tutto: dalle scarpe ai capi di vestiario, dai detersivi ai profumi, dai bottoni ai giocattoli e tanti altri generi ancora... Nonostante oggi sia ultraottantenne, non ho mai sentito nessuno chiamarlo Pasquale, per tutti è sempre stato e sempre sarà semplicemente Pascalino. Nel basso, accanto alla bottega di Pascalino, c'era Michelina 'a Caprara, che vendeva caramelle e piccoli dolciumi, in concorrenza con Luciella, che si trovava di fronte alla cantina dei Di Guida, sempre al Cap' 'a Chianca
Di fronte a Pascalino c'era l'abitazione-bottega di Don Felice 'o scarparo. Don Felice Era molto orgoglioso di suo figlio Rafiluccio, che credo sia stato uno dei primi laureati di Piscinola. Sicuramente il primo figlio laureato di un ciabattino! Rafiluccio mi dava spesso delle lezioni di grammatica italiana. Nel 1962 studiavo a casa sua, quando venne una forte scossa di terremoto ed io per smettere di studiare, dissi che il libro... era volato via dalla finestra...! A distanza di una quarantina di anni ho rincontrato Rafiluccio, che mi ha ricordato di quell'episodio e ci siamo fatti un sacco di risate...! 
Ricordo che, dopo la scossa di terremoto, a casa di Don Felice venne un tecnico del Comune per valutare i danni. Don Felice era terrorizzato dal rischio di un probabile sgombero coatto del fabbricato. Quando il tecnico rilevò che c'erano delle profonde crepe nel soffitto, Don Felice rispose: "Ingegnè, queste crepe nel muro non c'entrano niente col terremoto di oggi (1962), quelle crepe sono dovute ad una bomba caduta nelle vicinanze durante la guerra"...! Credo che quelle crepe (assieme al nucleo familiare di don Felice) erano ancora al loro posto, quando poi venne la più forte scossa del 1980!
Nel vico Primo Plebiscito, subito dopo la bottega di don Felice, c'era la bottega di un altro calzolaio indimenticabile, che si chiamava: don Vicienzo 'o Popolo, un personaggio singolarissimo, che spaziava tra la filosofia, la letteratura e quello di essere un bravo ciabattino.... Oggi lo chiamerebbero uno "showmen", con la differenza che i comici a teatro ripropongono sempre lo stesso spettacolo, mentre don Vicienzo ogni giorno cambiava copione...!
Altro abitante singolare del vico Secondo Plebiscito era Don Cosimo 'o tarallaro: "Cambiare dollaro, si accetta solo maneta italiana!", era il suo simpatico motto...   
Poi c'era un vecchio, soprannominato Ummenone (che stava per grosso uomo), il quale girava per le strade di Piscinola con una carriola di legno, raccattando escrementi di animali (di asini e di cavalli): un servizio sociale utile e gratuito per la comunità, per dimostrare che allora la raccolta differenziata la si faceva sul serio e anche con una finalità ecologica, perché gli escrementi raccolti erano venduti ai contadini per concimare le campagne. Ummenone, fumava un sigaro al giorno (il mozzicone lo utilizzava nella pipa) e pretendeva di scegliersi il sigaro dal pacchetto, quando lo comprava dal tabaccaio...!
Non mi ricordo di Totore 'o mezzone, ma mi ricordo di un certo Giovanni 'o Mezzone, mio caro compagno di scuola, figlio di Giggino 'o muzzarellaro, che vendeva e vende ancora, latticini come ambulante. 
Cenzone aveva un negozio di Emporio in piazza B. Tafuri, mentre suo cognato la domenica mattina si metteva con una specie di baldacchino, fuori a questo negozio ed aggiustava gli orologi, così tutti lo chiamavano Affonso 'o rilurgiaro
Rabbielle (Gabriele), anche lui stava in piazza, ma è riduttivo dire che vendeva solo meloni, perché commerciava ogni genere di frutta che la stagione in corso offriva, e non solo... Una volta, in pieno dicembre, procurò un'anguria rossa ad una persona la cui moglie incinta aveva avuto la classica "voglia"..., del mellone, per appunto! In estate Rabbiele vendeva anche le rinomate rattate, particolari granite condite con delle essenze colorate, di chissà quali composizioni e provenienza, ma deliziose! Aveva una grande bagnarola di zinco, sempre piena d'acqua, nella quale sciacquava e teneva i bicchieri di plastica..., alla faccia di tutte le norme igieniche di oggi!!
A proposito di serengare (antiche infermiere a domicilio), ne ricordo particolarmente due: una era  'onna Mitirde (donna Matilde), che ci vedeva pochissimo, ma nonostante questo faceva le iniezioni “a uosemo"...! Era la mamma di un altro personaggio storico di Piscinola, Gennarino 'ndlè ndlè, del quale parla anche Luigi Sica nel suo libro "Il borgo Perduto". L'altra serengara era 'onna Giusuppina 'a mmericana, che abitava proprio in piazza Tafuri, il cui balconcino stava sopra l'Emporio e si vede nella vecchia foto della processione del Salvatore risalente agli anni '50 (nel seguito mostrata).
Giusuppina era la zia di mia madre. Allora non c'erano le siringhe monouso e la siringa, che era di vetro, si bolliva in una vaschetta di alluminio per renderla sterile. Giusuppina 'a mmericana, che io sappia, non ha mai fatto bollire la siringa prima di fare un'iniezione ai clienti che si recavano presso la sua abitazione. Diceva sempre "...l'ho appena bollita", ma si era fortunati se l'avesse sciacquata nell'acqua fresca...! Eppure allora non c'erano malattie che si diffondevano per mezzo dell'ago: misteri della medicina e sempre alla faccia dell'igiene!
Pasquale Di Fenzo

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lunedì 30 novembre 2015

Luigi Signore, un generoso artista dei presepi!


Ci avviciniamo al Natale e già si inizia a respirare l'aria delle festività e in questo clima di attesa ci piace qui ricordare un artista del nostro territorio, presto dimenticato, parliamo dello scultore nonché pittore Luigi Signore
Il maestro Signore nacque nel quartiere di Miano, ma divenne piscinolese di adozione, perché sposò una ragazza piscinolese e abitò per tanti anni nel quartiere di Piscinola; egli discendeva da una famiglia d'arte, perché anche suo padre fu un artista attivo ed apprezzato. 



Costretto ad abbandonare gli studi durante la seconda guerra mondiale, Luigi Signore maturò la propria professionalità e arte da autodidatta, iniziando a dipingere e ad esporre le proprie opere in numerose mostre cittadine, che puntualmente riscuotevano un apprezzato successo. Ma con gli anni che seguirono, pian piano, subentrò nel suo animo la passione per i presepi e fu quello un amore a prima vista, che lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni...
Suo padre diceva che se avesse fatto il Presepe per almeno 50 anni, sarebbe poi andato in Paradiso, e in effetti di Presepi il maestro Signore ne ha realizzati moltissimi nella sua vita...!
Iniziò il suo percorso di presepista, negli anni '50, esponendo le sue creazioni in diverse chiese cittadine napoletane, come nella chiesa dello Spirito Santo, di Santa Maria la Nova, di San Nicola alla Carità  e in tante altre ancora. 
Restano famosi e molto ammirati gli allestimenti che puntualmente Egli e la sua famiglia ogni anno realizzavano gratuitamente al centro dell'emiciclo della Galleria Umberto I di Napoli, proprio sotto la bellissima volta di vetro e acciaio. Era quello un bel colpo d'occhio, soprattutto per i tanti turisti che si trovavano a visitare la città nel periodo natalizio. Purtroppo nessuno ha mai pensato di rendere permanente quell'opera, che manca da quel luogo ormai diversi decenni.
Altra opera famosa di Luigi Signore fu il presepe donato al museo etnico-internazionale, allestito nel Santuario di Montevergine (AV). 
Le realizzazioni presepiali, curate nel suo studio in via Lazio a Miano, rispecchiavano in maniera certosina l'antica tradizione settecentesca napoletana, infatti nelle splendide scenografie si poteva ammirare un percorso di narrazione scenica suddiviso in cinque quadri: il Tempio con la Grotta, l'Oriente, il Mercato, la Taverna, l'Annunciazione. 
L'opera allestita nella Galleria Umberto I si componeva di numerosi "pezzi", arrivando a contare fino a 500 figure, tra pastori ed animali vari; moltissime erano le miniature, le architetture e tantissimi gli oggetti curati e cesellati, con passione, nei materiali più disparati: porcellana, acciaio, legno, cera, terracotta, argento, seta, lino e altri materiali ancora. 
I pastori di Luigi Signore erano realizzati completamente a mano, secondo la tradizione settecentesca napoletana, vale a dire: la testa, le mani e i piedi in terracotta policroma, gli occhi in vetro, il manichino in stoppa, l'anima interna in ferro e i paramenti in tessuto originale d'epoca. Le figure di primo piano erano alte intorno a 40 centimetri, mentre le altre, in retrovia, diminuivano di altezza, in proporzione alla prospettiva della scena.
Nella realizzazione delle sue opere il maestro si avvaleva anche dell'aiuto della famiglia e sopratutto dei figli: Giuseppe curava la parte scenografica del plastico, Anna la composizione dei vestiti, Salvatore le miniature, mentre Rosario era specializzato nelle riproduzioni d'epoca.
Luigi è stato tra i primi artigiani napoletani del dopoguerra a realizzare i pastori con occhi in vetro.
I soggetti realizzati dal maestro non erano mai copiati e nessuno era uguale all'altro, ma ciascuno era creato direttamente dalla sua "sconfinata" fantasia... Curiosi erano i volti di molti personaggi che venivano rappresentati con lineamenti somatici fortemente accentuati e goffi, come vecchi con profonde rughe e grossi nevi sui volti, giovani con esagerate gobbe oppure donne con vistosi gozzi. 
Luigi Signore è stato apprezzato anche come pittore, infatti altra sua passione era dipingere con olio su tela.  
A diversi anni dalla sua scomparsa le opere del maestro Luigi Signore sono conosciute in Italia e diffuse in tutto il mondo.
Salvatore Fioretto

martedì 24 novembre 2015

Piscinola e Marianella... la terra della musica...! (seconda parte)

Prima di continuare la trattazione di "Piscinola e Marianella... la terra della Musica", descrivendo il periodo musicale definito "moderno", che va dalla fine degli anni '50, fino ai nostri giorni, dobbiamo aprire una breve parentesi, descrivendo la musica popolare (o musica folck), espressa nei canti 'a figliola, nei canti 'a fronna, nelle Tammuriate e nelle Villanelle, sempre in rapporto al nostro territorio. 
Musicisti ambulanti, da Pompei, mosaico, 100 a.C. - Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Questi generi musicali possono essere definiti come delle genuine espressioni della civiltà contadina locale, forme musicali (musica e canto) che si sono radicate anche nel nostro territorio, perché se nella vicina Giugliano e nell'agro aversano nascevano e spopolavano le Tarantelle e le Tammuriate, nonché i celebri canti 'a fronna e 'a ffigliola, e se nella capitale del Regno erano le Villanelle ad essere rappresentate nelle case dei nobili e degli aristocratici, possiamo affermare che anche nei nostri antichi Casali di Piscinola e di Marianella, come pure nei Casali ad essi adiacenti, questi generi musicali si diffondevano e venivano tramandati nei secoli dai loro abitanti, indistintamente se popolani o nobili o aristocratici.
I canti 'a figliola deliziavano le scampagnate del popolo e venivano spesso eseguiti in coincidenza di importanti ricorrenze religiose, come, ad esempio, la juta a Montevergine, ossia il pellegrinaggio settembrino al Santuario della Madonna di Montevergine (Avellino), oppure durante la festa dell'Archetiello di Miano o di Sant'Anastasia, nel periodo pasquale. 
Canti 'a figliola

Il canto dedicato alla Mamma Schiavona di Montevergine è generalmente conosciuto per i seguenti versi:
 "Simmo jute e simmo venute
e quante razie c'avimm 'avuto..."
Canto alla Madonna di Montevergine

L'accompagnamento musicale dei canti 'a figliola era eseguito con tammorre, nacchere e a volte con dei rudimentali pifferi. 
Anche con il Carnevale, che iniziava il 17 gennaio (festività di Sant'Antonio Abate) con il rito dell'accensione del grande falò, detto 'o fucarazzo, gli anziani usavano cantare, quasi come in un rituale scaramantico svolto per esorcizzare la morte e le disgrazie, questo canto 'a figliola:
"Carnevale mio è mmuorto!
Ah, si sapevo ca tu murive,
t'accerevo na vallina cennerina,
gioia soja....!".
Altro momento musicale significativo era rappresentato dalla festa della Madonna delle Grazie, il 2 luglio, quando le anziane piscinolesi, devote alla Madonna, cantavano con fede la famosa: "Regina de lu cielo, divina maestà...",  che spesso era introdotta dal seguente canto 'a figliola:
"... E' caduta 'na stella d' 'o cielo e 'mmiez''o mare s'è spampanata, 'a dinto è asciuta 'na piccerella cu 'e ricce 'nfronte  e cu 'e anielle 'e mmane...".

Ecco il testo del canzone: 
Regina de lu cielo
divina maestà
chesta grazia ca te cerco
fammella pe’ pietà (2 v)

Madonna  de la grazia
ca ‘mbraccio puorta grazia
a vuie vengo pe’ grazia
o Maria fance gra’
fance grazia o Maria
comme te fece lu Pateterno
a te fece mamma de Dio
fance grazia o Marì

Fammella o Maria
fammella pe’ carità
pe li doni ca ricevisti
dalla santissima Trinità

Madonna de la grazia…

Scese l’angelo da lu cielo
e te venne a salutà
salutà venne a Maria
e nui cantammo l’Ave Maria...

Regina de lu cielo, divina maestà 

I canti 'a fronna erano spesso improvvisati ed erano eseguiti "a distesa", vale a dire senza l'accompagnamento musicale; erano spesso i contadini a cantarli, nel corso del loro duro lavoro nei campi, durante le fasi della trebbiatura del grano nelle aie oppure nella macerazione della canapa ai Regi Lagni; eventi agresti che facevano da richiamo per gli abitanti dei borghi vicini, con fanciulli, donne e anziani di ogni età che accorrevano e venivano coinvolti in caratteristiche e improvvisate sagre, svolte durante le fasi culminanti dei raccolti, al termine dei quali, anche se esausti, i contadini dividevano con gli ospiti le loro pietanze, accompagnate da un buon vino pere 'e palummo e, poi, tutti insieme cantavano e ballavano al ritmo di tammorre e nacchere
La stessa scena si ripeteva anche dopo la rappresentazione della tragedia sacra dedicata alla Madonna delle Grazie di Piscinola, la sera del 2 luglio, eseguita nei pressi della chiesetta omonima. 

Tarantella Giuglianese

Serenata
Spesso i contadini che coltivavano i fondi e gli apprezzamenti del territorio, come quelli della piana dello Scampia, comunicavano tra loro a distanza, improvvisando canti a distesa. Lo stesso veniva fatto dai parenti dei detenuti all'esterno delle carceri cittadine, i quali per comunicare, componevano all'istante canti in napoletano stretto, per non farsi comprendere dai secondini. Questi canti iniziavano sovente con i versi: "fronne 'e limone", oppure "frunnella aruta"..., da cui deriva il detto popolare, ancora in uso: "cantà 'a fronna 'e limone..."
Qui la musica ha sempre accompagnato ogni fase della vita degli abitanti di questo territorio!
Tarantella
Le serenate agli sposi erano organizzate dal compare di anello, che assoldava una piccola orchestrina con cantante, che dopo il banchetto allietavano gli sposi, già appartati nella loro nuova casa, per iniziare i famosi "'lli otti ggiorni"...
Altra occasione per "portare la serenata" era la ricorrenza dell'onomastico, quando il festeggiato era svegliato dal canto della solita orchestrina che si posizionava di buon mattino, fuori all'uscio di casa... La cosa stupefacente era quella che questi musicisti ricordavano a memoria tutti i nomi degli abitanti e la loro abitazione...!
Altri tipi di canti popolari erano le "ninna nanne": dolci cantilene eseguite a ritmo lento e senza musica, cantate ai pargoli dalle mamme o dalle anziane nonne, con temi quasi sempre fantastici.
Anche le veglie funebri rappresentavano, strano a dirsi, un altro momento di espressione musicale popolare, un genere proprio, composto da una sequela di nenie, con soggetto lugubre e mesto, alternate dal pianto.
Queste nenie erano eseguite dai parenti o dai conoscenti stretti del defunto; spesso erano anche chiamate delle donne che cantavano e piangevano proprio per la circostanza. Il canto funebre ha origini antiche, sicuramente derivante dal culto dei morti, tramandato dai popoli ellenici sbarcati sulle nostre coste.


La canzone napoletana ha avuto le sue fasi embrionali proprio negli antichi Casali, infatti, nella vicina Antignano, già nel 1200, la musica popolare esprimeva i primi capolavori, nei canti di protesta, come il celebre Canto delle Lavandaie del Vomero. 

Canto delle lavandaie del Vomero

Anche Piscinola, Marianella e tutta la cinta a nord di Napoli, un tempo era un territorio con una folta presenza di lavandaie:  si può constatarlo osservando le foto di inizio secolo che mostrano questi borghi con la presenza di numerosi filari di indumenti esposti ad asciugare al sole, sia nelle corti dei palazzi che nelle aie delle masserie. Sicuramente le antiche mura di questi borghi hanno ascoltato il dolce e perenne canto delle lavannarelle di Piscinola e di Marianella, che cantavano canzoni di protesta sociale, come appunto questa celebre del duecento, che recriminava al malgoverno angioino la mancata concessione di quattro appezzamenti di terra da coltivare (muccatura), come anzitempo promessi... 
Il termine antico "muccatura", ossia fazzoletto, era utilizzato fino a pochi decenni fa in questi luoghi e quasi del tutto abbandonato nel centro cittadino, questo per dimostrare che la tradizione contadina è stata condizionante per questo genere musicale antico, antesignano della canzone classica napoletana.
Nei secoli che seguirono furono le Villanelle a reggere il passo della tradizione musicale e a segnare l'evoluzione del canto popolare, precursore della melodia partenopea; canti resi celebri in tutto il mondo grazie alla pregevole opera di recupero e di pubblicazione condotta, nella prima metà del XIX secolo, dal compositore, nonché editore di origini parigine: Guglielmo Cottrau (Parigi, 1797 Napoli, 1847), opera poi continuata dal figlio napoletano: Teodoro Cottrau (Napoli, 1827 - Napoli 1879), anche lui valente compositore di canzoni napoletane (Addio 'a Napoli, La Sorrentina, Lo zoccolaro, Santa Lucia (barcarola), ecc.).
Le Villanelle sono dei piccoli capolavori di musica rinascimentale, definita anche musica popolare colta, esse sono la descrizione in versi e musica di eventi di vita comune oppure dell'amore mostrato per una donna; sono opere sempre ambientate in un contado agreste, semplice e genuino. Basti citare la Villanella del XVI secolo, attribuita a Velardeniello, dal titolo "Boccuccia de 'no pierzeco apreturo...", oppure l'altra anonima, sempre del XVI secolo, di "Si lli ffemmine...", per apprezzare la bellezza di queste composizioni, accompagnate dalla musica soave e dal canto che descrive in maniera "quasi pittorica" il paesaggio, sicuramente adiacente alla città di Napoli. 
Boccuccia de lu pierzeco apreturo 

Si lli ffemmine... 

Purtroppo molte Villanelle, altrettanto belle e celebri, restano anonime, senza conoscere né il nome degli autori e né i luoghi di ambientazione.
Questo patrimonio musicale costituisce le fondamenta e la stratificazione storica che il nostro territorio ha modellato nei caratteri della sua cultura, esso rappresenta il retaggio storico-antropologico che ha favorito il particolare attaccamento alla musica manifestato dai suoi abitanti, in ogni periodo storico e per ogni genere musicale.
Salvatore Fioretto 


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