lunedì 30 giugno 2014

Un luogo, una chiesetta, una devozione secolare: la Madonna delle Grazie...!

Quella parte di territorio, che si erge in leggerissima altura a sud dell'abitato storico di Piscinola, conserva ancora oggi nel suo toponimo l'essenza della sua storia: storia fatta di devozione popolare, di sentimenti di amore per la terra natia e di antico senso di comunità contadina, parliamo della località (locus) chiamata "Madonna delle Grazie". 
Mappa di Antonio Valmagini (metà 1800)

Le origini storiche
Nelle carte topografiche più antiche, a partire dal XVII secolo,  questo luogo viene menzionato semplicemente col toponimo di “Santa Maria delle Grazie”.
Particolare dellla mappa dell'Agro napoletano, di A. Rizzi Zannoni, anno 1793
L'origine del termine è da ricercare nell'antico utilizzo del territorio, destinato a essere, nei secoli trascorsi, il luogo di sepoltura degli appestati, ma anche per la presenza di una chiesetta dedicata alla Vergine. Eppure le due cose sono tra loro collegate...! Infatti, proprio durante le tante epidemie, che afflissero nel corso dei secoli la popolazione di Napoli e dei suoi Casali, non ultima quella del colera del 1836, in questo luogo furono sepolti i morti di Piscinola. La scelta era dettata dalle severe disposizioni di sanità pubblica, ordinate di volta in volta dalle autorità cittadine, che imponevano di seppellire i morti, non più sotto le chiese parrocchiali, ma al di fuori del perimetro dell’edificato. Secondo i "Registri dei nati e dei morti", conservati nell'antica parrocchia del SS. Salvatore, i morti appestati e i colerosi furono seppelliti proprio nell’antica chiesetta della Madonna delle Grazie, la cui presenza è attestata già a partire dalla fine del 1500.
Rara immagine dell'antico quadro della Madonna delle Grazie, 
particolare della foto del 1933.
Proprio in questi eventi di calamità naturale, la Madonna delle Grazie era invocata dal popolo con grande devozione e speranza, ecco spiegato il titolo dato a questa piccola chiesa, che esisteva in quel luogo fin dai tempi lontani ed ecco spiegato l'origine del toponimo.  
La chiesetta barocca, della quale purtroppo non abbiamo foto o stampe, era situata poco distante il bel tempietto che oggi ammiriamo (costruito solo nei primi decenni del XX secolo), in una zona opposta al sito odierno, al di là del largo della strada 
L'antico sito si p ben vederlo osservando le mappe storiche qui riportate.
Sappiamo con certezza che nel 1608 l'antica chiesetta della Madonna delle Grazie di Piscinola era di proprietà di un certo Rododerio e si trovava posta tra i beni di Giovanni Toccho (o Tocco) e la via pubblica. 
Il cardinale di Napoli, Ottavio Acquaviva, in una sua “Relazione di Santa Visita”, faceva cenno alla sua esistenza, descrivendo anche il suo interno. Da questa rara descrizione apprendiamo che la chiesetta aveva un unico altare e che tale A. De Luna aveva l’incarico di fare celebrare la Messa ad ex-devozione e di tenere accesa una lampada votiva, davanti all’immagine della Vergine. Non si sa se la cappella in questione fu demolita o crollò in seguito a eventi naturali. Al suo posto, poco distante, venne edificata un’edicola (cappellina), laddove oggi sorge un muretto in tufo. 

La chiesa attuale
La chiesetta attuale venne edificata intorno 1927, come recita la lapide in marmo posta nel suo interno:
I.M.I.
D.O.M.
QUESTO TEMPIETTO
DEDICATO ALLA VERGINE DELLE GRAZIE
EBBE PER PROMOTORE ALFONSO DI MARO
REV. PARROCO GALLO
SU SUOLO DONATO DAL COMM. ROSSI
CON LA GENEROSA OFFERTA DI
RAFFAELE DANESE
E CON L'OBOLO DEL POPOLO
PISCINOLESE
A.D. MDCCCCXXVII
Lapide in marmo interna al tempietto
Il tempietto, realizzato con pietre di tufo giallo, proventi dalle vicine cave di Chiaiano, fu edificato spontaneamente per volontà popolare, infatti fu completato attraverso forme di volontariato nella manodopera e con le donazioni e le offerte dei Piscinolesi. Persino le pietre utilizzate per le sue mura sono state in gran parte donate dai trasportatori di pietre, ogni volta che percorrevano con i loro carri l'attigua strada comunale, oggi Via Madonna delle Grazie.

I festeggiamenti, tra tradizione e folclore
In questo luogo, nel giorno della festività liturgica della Madonna delle Grazie, che cade il 2 di luglio, gli antichi piscinolesi solevano organizzare la festa popolare, che chiamavano delle “Lampadenelle”. Nel corso dei festeggiamenti, poi, era rappresentata la "Funzione della Madonna delle Grazie”, chiamata anche "La leggenda di Marco Bruno di Campoleone".
Altare della chiesetta, anno 2011. Foto di S. Fioretto
Il termine di “Lampadenelle”, deriva dalla tecnica di realizzazione delle luminarie, allora in uso, mediante l'utilizzo di arcate in tubi di ferro e con tante piccole torce alimentate a gas (‘a 'llummata). 
Il luogo centrale della festa, dove veniva allestito il palco, coincideva con l'attuale largo antistante alla chiesetta, posto al termine di Via Napoli.
La festa è stata celebrata per l’ultima volta nell’immediato dopoguerra.

La “Leggenda di Marco Bruno da Campoleone
Questa rappresentazione era detta anche semplicemente: “’A Funzione”. Essa prendeva spunto dalla leggenda tramandata oralmente da diverse generazioni. La recita era condotta da alcuni popolani, devoti della Madonna e da alcuni soci appartenenti all'associazione "Madonna delle Grazie"; quest'ultima era stata fondata nel 1933, proprio per sostenere il culto e organizzare ogni anno la festa in onore della Madonna. Gli attori dilettanti si vestivano di punto con abiti preparati per la circostanza dalle donne piscinolesi, consoni ai personaggi evocati. 
La trama della "tragedia sacra", la cui origine resta tutt'oggi sconosciuta, rievocava un evento miracoloso, avvenuto proprio in questo luogo nei secoli passati, per intercessione della Madonna delle Grazie.

Giovani di Piscinola che portano a spalla l'immagine della Madonna delle Grazie, anno 1933. Nella seconda fila, seduto, ultimo a destra, mio nonno Salvatore Fioretto

Ecco la sintesi della trama:
In un tempo assai remoto, un contadino piscinolese, di nome Pietro D’Avalos, aveva una devozione specialissima per la Madonna delle Grazie, il cui quadro, con la Vergine che allatta il Bambinello, era custodito in una cappellina sul largo stradale, appena al di fuori del contado. Mosso da pietà cristiana, Pietro venerava ogni sera, assieme all'anziano genitore, la sacra effigie della Vergine. Il tempo trascorreva e l’uomo, sempre con crescente devozione, si recava costantemente alla cappella per pregare, non facendo mai mancare la luce di un lumino.
Una sera, mentre si apprestava, come ormai era solito fare, a portare il cero alla cappella della Madonna, fu coinvolto involontariamente in un omicidio, perpetuatosi proprio dinanzi alla cappellina. Egli, pur innocente, veniva sorpreso dai gendarmi sul luogo del delitto e, complice l'oscurità, scambiato per l'assassino. L'uomo, tra il pianto e la disperazione, veniva quindi condotto in carcere.
Alcune strofe del canto popolare dedicato alla Madonna delle Grazie
Nel carcere lo sfortunato non faceva altro che pregare la Madonna delle Grazie, divenuta ormai la sua ancora di salvezza... Anche l'anziano padre, recandosi ogni giorno davanti alla cappellina della Madonna, piangeva per la disavventura capitata al proprio figlio e implorava una grazia alla Vergine.
E’ a questo punto della  “Funzione” che prevalevano forti i sentimenti della fede e della speranza da trasmettere in scena agli spettatori, non privi del pathos teatrale... Nel mentre si dava atto al processo dell'innocente Pietro, la Madonna, con l’aiuto di un angelo, riusciva a prevalere sul male e a far recapitare una missiva scritta al giudice del tribunale. Nel contempo il quadro della Madonna mostrava a tutti un "portento" soprannaturale, proprio a conferma del disegno divino scritto per salvare l'innocente Pietro. La gente intanto iniziava, stupita, a gridare al prodigio! L'assassino, di nome "Marco Bruno di Campoleone”, irrompendo nel tribunale, confessava pubblicamente la sua colpevolezza e rivelava al giudice il nome del vero mandante del delitto. Marco Bruno veniva quindi graziato dalla pena di morte e mandato in esilio, il reo condannato e l’innocente Pietro d'Avalos reso finalmente libero! 
Nel finale il pubblico accompagnava la scena, cantando insieme agli attori il Te Deum di ringraziamento alla Madonna delle Grazie.

La chiesetta e la campagna circostante con ciliegi in fiore, prima dello sbancamento, anno 2004, foto S. Fioretto
Per la rappresentazione di questa "tragedia sacra", il palcoscenico era allestito a lato dell’incrocio (l’attuale largo comunicante con Via Napoli), dove oggi c’è un vecchio muro di tufo; mentre il pubblico spettatore si sistemava in piedi per strada oppure seduto sui terrazzamenti (dette: ‘e separelle), che costeggiavano un tempo il piccolo largo davanti alla chiesetta. 
Alla recita di questa tragedia hanno partecipato in gioventù molti  piscinolesi appartenenti alle famiglie originarie del quartiere, tra essi ricordo con affetto anche mio nonno Salvatore Fioretto e mio zio paterno Luigi Trematerra.
Lapide di dedica posta all'interno della chiesetta
C’è da dire, al termine di questa bellissima pagina di storia e di espressione popolare spontanea del nostro quartiere di Piscinola, che l’antico e colorato quadro della Madonna delle Grazie, tanto venerato dai vecchi piscinolesi, è stato miserevolmente trafugato da mani ignote, pochi anni dopo il terremoto del 1980. Le uniche testimonianze sopravvissute sono queste poche foto in bianco e nero, qui riportate per l'occasione, per le quali ringraziamo l'amico Luigi Sica, per avercele rese disponibili a futura memoria delle nostre tradizioni. 
Al posto del quadro rubato, per interessamento del compianto Salvatore Della Corte, fu collocato un dipinto realizzato negli anni '90, da un anziano sacerdote che si dilettava a dipingere in vecchiaia.
Salvatore Fioretto

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P.S.: Questo post è stato scritto per commemorare la festività della Madonna delle Grazie, che cade domani 2 luglio ed è dedicato all'amico Maurizio di Gennaro, sperando di aver appagato il suo desiderio di conoscenza.


Foto della chiesa durante i lavori di sbancamento anno 2006 (foto di S. Fioretto)
Foto della processione, intorno anni '40 (foto di Luigi Sica)
Foto della processione per le strade di Piscinola, intorno anni '40 (foto di Luigi Sica)

Foto della processione per le strade di Piscinola, intorno anni '40 (foto di Luigi Sica)

Chiesetta appena dopo il rifacimento del tetto (primi anni '80). Foto di Edoardo Mellone


Foto durante i lavori di sbancamento e di ampliamento stradale, anno 2006  (Foto S. Fioretto)



Foto attuale della chiesetta della Madonna delle Grazie (Foto tratta dal sito FB "NoiePiscinola")



sabato 28 giugno 2014

Esattamente cent'anni....il 30 giugno 1914 il treno a vapore giungeva a Piedimonte!

Ho il piacere di inserire questo componimento scritto dal mio amico matesino, il dott. Giovan Giuseppe Caracciolo, per omaggiare l'arrivo cent'anni fa, il 30 giugno 1914, della ferrovia "Napoli-Piedimonte" nella sua cara città di Piedimonte Matese. Il percorso da Napoli, attraverso Secondigliano Piscinola, Marano, Mugnano.... era stato finalmente completato!


Il 30 giugno 1914, esattamente cento anni fa, col completamento dell'ultimo tronco della Ferrovia Alifana, Caiazzo-Piedimonte, le locomotive a vapore giungevano imbandierate ed ornate di fiori alla nuovissima stazione di Piedimonte (allora d'Alife) accolte da una folla festante. Per la cronaca erano la locomotiva di costruzione inglese V Catania con un convoglio merci che trasportava gli operai artefici della costruzione e quella belga "La Meuse" trainante tre carrozze passeggeri con le Autorità a bordo. A quei tempi quando un tronco era completato, lo si inaugurava con le "Locomotive di prova". Tale inaugurazione non corrispondeva necessariamente con l'inizio del servizio commerciale. Piedimonte inizierà, infatti, ad essere collegata a Napoli dal 5 ottobre 1914. Quel giorno festante vide i discorsi dell'Onorevole Angelo Scorciarini Coppola, artefice del collegamento Piedimonte-Santa Maria Capua Vetere, del Signor Sindaco della "Perla del Matese" Carlo Grillo, di S.E. il Vescovo Felice Del Sordo e del Direttore della Compagnie Des Chemins De Fer Du Midi De l'Italie (Compagnia delle Ferrovie del Mezzogiorno d' Italia con sede a Parigi), che aveva realizzato la ferrovia, Amedeo Chauffourier. La festa si concluse con un gigantesco rinfresco. I macchinisti ed i fuochisti che avevano condotto le locomotive tra pagliette e tube lanciate al cielo furono portati in trionfo. Avere allora una Ferrovia significava uno sviluppo commerciale ed economico per le zone attraversate. La Pianura Alifana, ricca di industrie (basta citare il grandioso Cotonificio impiantato dalla Famiglia svizzera EGG nel 1812) e di una agricoltura fiorente, non poteva più essere servita da traballanti carri trainati da cavalli e dalle carrozze passeggeri dei Conti Gaetani D'Aragona che in caso di condizione meteorologiche avverse dovevano sospendere il viaggio.

Un primo progetto risalente ai Borboni del 1858 prevedeva di servire Piedimonte con una diramazione dotata di  binario a scartamento normale da Amorosi, sulla già costruita ferrovia Napoli-Foggia. L'ingegnere Paolo Dovara nel 1878 proponeva il compianto allacciamento a Presenzano o Caianello, con proseguimento verso Alife, Piedimonte, Gioia Sannitica, indi Telese, ove ci sarebbe stato l'innesto sulla Napoli-Foggia: Piedimonte sarebbe stata collegata a Roma. Ma anche Alvignano e Caiazzo chiedevano a gran voce il loro collegamento ferroviario.
Ecco quindi le proposte di una ferrovia economica con binario a sezione ridotta del Consigliere Provinciale di Piedimonte Nicola Ventriglia , dell'Ingegnere Pasquale Sasso nel 1880, che collegasse la Pianura Alifana con Caiazzo (allora si scriveva Cajazzo) e Santa Maria Capua Vetere.
Alla fine la Compagnie des Chemins de Fer du Midi de l'Italie adottò il progetto degli Ingegneri Tessitore e D'Aniello ed i lavori di costruzione e gli espropri iniziarono nel 1905. La dotazione della Ferrovia all'apertura era di due locomotive a vapore di costruzione Breda di Milano, tre locomotive a vapore belghe "La Meuse" (un esemplare è monumentato alla stazione di Catania Borgo della ferrovia Circumetnea, ad Essa ceduto nel 1923), la già citata locomotiva a vapore V Catania, presa usata da una miniera di zolfo in Sicilia presso Dittaino, cinque elettromotrici a carrelli Breda per la Ferrovia elettrica, undici carrozze rimorchiate e 140 carri merci di vario tipo costruiti a Napoli dalle Officine Meridionali, due locomotive elettriche Breda  per treni merci. La vecchia Alifana aveva un tracciato completamente diverso dall'attuale: partendo con la vaporiera da Piedimonte, dopo la stazione di Alife, il fiume Volturno era superato con lo stesso ponte  stradale costruito nel 1868, dedicato agli allora Principi Umberto e Margherita di Savoia. Dopo Sant'Angelo in Formis alla stazione di Biforcazione Capua il binario proveniente da Piedimonte si innestava sulla ferrovia Alifana Elettrica Capua-Napoli Piazza Carlo III. La Vaporiera era scartata, il vagone con gli utenti da Piedimonte agganciato alla elettromotrice proveniente da Capua. I passeggeri diretti a Capua, scendevano e trovavano pronto il treno elettrico da Napoli.
Il viaggio proseguiva attraversando Santa Maria Capua Vetere (ben quattro stazioni), l'Agro Aversano e l'allora "Campania Felix", le rigogliose campagne di Giugliano, Mugnano, Marano, Piscinola a nord di Napoli (oggi chi ci crederebbe), ricche delle celebri "percoche" e vigneti la cui uva per la vicinanza al binario dell'Alifana era chiamata "L'Uva della Piedimonte". Il treno elettrico, simile ad un tram, con il binario a scartamento ridotto di 950 mm impegnava infine via Don Bosco, sede di uno Scalo Merci, e terminava la sua corsa sotto l'elegante stazione di Napoli Piazza Carlo III, ora Hotel di lusso. Ricordando questa romantica ferrovia non possiamo esimerci dal citare la difficoltà con cui il treno a vapore superava la tratta Piana di Caiazzo-Caiazzo.
Poco prima della casa cantoniera "Truli", tutt'ora visibile sulle Colline Caiatine anche se allo stato di relitto, per la forte acclività spesso in condizioni sfavorevoli (Treno troppo pesante, binari umidi, scarsa qualità del carbone), la locomotiva a vapore tra forti rumori dello scappamento e volute di vapore iniziava a slittare ed a perdere potenza fino a bloccarsi. I musi neri (macchinista e fuochista) invitavano spesso i passeggeri a scendere per diminuire il peso, se non addirittura a spingere. In genere il convoglio arretrava di nuovo verso Piana, faceva pressione, immetteva nuova sabbia da spargere sulle rotaie ed a tutto vapore prendeva la rincorsa. I malcapitati passeggeri, lasciati sulle alture di Caiazzo a fare asparagi e frutti di stagione, a volo, risalivano sull'ansimante convoglio. Quando il treno era molto pesante si faceva la doppia trazione, con l'aggiunta a Piana di una seconda locomotiva di spinta che veniva agganciata in coda (uno spettacolo!).
Il tronco Piedimonte-Biforcazione Capua andrà distrutto completamente nel 1943 a causa degli eventi bellici, mentre la Ferrovia Alifana Elettrica sospenderà l'esercizio il 20 febbraio 1976, decretando la fine di un piccolo mondo antico.
Come sapete, la linea che si usa attualmente è stata attivata il 4 aprile 1963 con allaccio a Santa Maria Capua Vetere FS. 
Non ci resta che fare gli auguri alla nostra Ferrovia, che fra tantissime difficoltà in cento anni, ha superato avversità di tutti i tipi e proprio per lunedì 30 giugno abbiamo una buona notizia per festeggiare: tutte le automotrici della Ferrovia Alifana sono state riparate, sarà quindi sospeso il servizio automobilistico con gli autobus e le corse verso Napoli saranno assicurate esclusivamente dai treni.

Giovanni Caracciolo
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

venerdì 20 giugno 2014

'E ccerase.... 'e ccerase...!!!!

“Abbrile, abbrile! Mmiez’’e ffronne ‘e rosa
vaco vennenno ‘o frutto ‘e chistu mese;
cacciate ‘a capa, femmene cianciose,
io donco ‘a voce e vuie facite ‘a stesa:
- Frutto nuviello e mese ‘e paraviso!
Collera ncuorpo a nuie nun ce ne trase!…
‘E ccerase!……’E ccerase!….
Chiaiano celebra in questa settimana il suo appuntamento annuale con la ciliegia, in una sagra-evento che richiama da decenni tanti appassionati e anche tanti sostenitori, provenienti da diverse città cerasicole d'Italia. Quest'anno la "Festa delle ciliegie di Chiaiano" assomma a ben quarantatré edizioni, svolte praticamente con cadenza consecutiva... 


  
Già..., la ciliegia di Chiaiano...! Un frutto che ha origini lontane, ma che si è perfettamente ambientato in questo territorio, dove ha trovato un habitat ed un ecosistema favorevolissimo, sia per clima, sia per esposizione paesaggistica, sia per ricchezza di minerali presenti nel suolo e, direi anche, sia per la passione della gente di Chiaiano, che l'ha portato sempre nel sangue... Insomma Chiaiano è la città della ciliegia a tutti gli effetti e lo è da diversi secoli!
Per risalire all'origine di questo cultivar, infatti, dobbiamo portarci con la mente nella notte dei tempi e, come spesso capita, tra i "meandri", alle origini della civiltà, dove la storia si perde nelle leggende popolari... (Anche se credo che nelle leggende c'è sempre un pizzico di verità, tramandata nell'immaginario collettivo...).
Forse il ciliegio era già coltivato da queste parti in epoca pre-romana, forse gli Osci furono i primi a conoscere e ad apprezzare le eccellenti qualità nutritive delle sue drupe...
Dal libro "Opere inedite e rare"  scritto da Vincenzo Monti
Originario dell’Asia Minore, da dove si è poi diffuso in Europa, l’albero del ciliegio può vantare una lunga e antica tradizione di coltivazione in Campania, la cui diffusione è stata favorita innanzitutto per il suo clima mite. Secondo una testimonianza, più o meno attendibile, che risalirebbe a Plinio il Vecchio, il ciliegio fu importato nel 72 d.C.,  da L. Licinio Lucullo, dalla città di Cerasunte, sul Ponto, nell'attuale Turchia (da cui il dialettale “cerasa”), dove egli era stato in campagna militare. L'albero del ciliegio appare anche raffigurato negli affreschi pompeiani. Lucullo, che è rimasto uno sconosciuto generale romano, è però reso famoso soprattutto per la sua arte culinaria (ancora oggi si esclama dicendo: "...un pranzo luculliano"). Secondo un'altra testimonianza, anch'essa un po' leggendaria, pare che Lucullo avrebbe importato dalla Persia il pesco, da cui prese il nome (dal latino volgare "persica", ossia mela di Persia, e in dialetto "perzeca"). Queste due essenze, ciliegio e pesco, le avrebbe poi piantate nei giardini della sua villa napoletana, che come è noto si estendeva da Monte Echia (Pizzofalcone), fino all'isolotto di Megaride (Castel dell'Ovo)..., favorendone col tempo la diffusione nel territorio napoletano... Ma qui il condizionale è decisamente d'obbligo...!
Il poeta Virgilio nelle Georgiche ha citato il famoso ciliegio napoletano, esclamando: "...Pullulat ab radice aliis densissima sylva , Ut cerasis , ulmisque; etiam Parnassia laurus Parva sub ingenti matris se subiicit umbra....". Nella "Ode al Pontano" del 1430, lo scrittore Luigi Galluccio, in riferimento al giardino di Minturno, scriveva: "...Hic cersus densa est...". 
Nella Egloga del Pontano Quinquennius VI 5, è scritto: "...nun det fraga mihi cerasi num molle quasillum...".
Con il trascorrere dei secoli moltissimi sono stati gli scrittori e i poeti che, intenti ad omaggiare la ciliegia, hanno riportato delle citazioni del frutto nelle loro liriche, frutto sempre accomunato al ritorno della primavera e quindi dell'amore...!
Ricordiamo ancora qualche strofa della poesia scritta dal celebre Salvatore di Giacomo, "'E ccerase...", che già abbiamo inserito all'inizio di questo testo:
"L'anno passato , 'o tiempo d''e ccerase,
faceva 'ammore cu na Purticesa,
abbascio 'o Granatiello steva 'e casa,
e 'a chiammavano Rosa 'a vrucculosa.
Belli tiempe de lacreme e de vase!
Ogne lacrime quante a na cerasa.
Ogne cinche minute nu vaso!
'E ccerase!.... 'E ccerase!"
Molti ricorderanno sicuramente le parole della celebre Reginella scritta dal poeta napoletano Libero Bovio,
Reginè, quanne stive cu mmico 
nun magnave ca pane 'e cerase...



Il poeta Giuseppe Capaldo, vissuto e morto a Miano, cosi scriveva nella poesia "Vocca 'e Cerasa":
"Vocca addirosa, mia, vocca addirosa, 
ch'addure comm''e rrose 'e paraviso
nun essere cchiù nfama 'e dispettosa
tuorname nata vota 'o pizzo a riso!
......
Vocca 'e cerasa, mia, vocche 'e cerasa;
dinto 'a stu core mmio tu che 'nc'hé miso 
c'ammore se venuto a fa na casa
E pe' fa sta casa tu mme l'acciso?
...... 
Oltre alle colline di Chiaiano, le zone coltivate a ciliegio si estendono nel circondario, raggiungendo le campagne sopravvissute a Marano, a Mugnano e a Calvizzano. In passato anche nelle campagne di San Rocco, di Frullone, di Piscinola, di Miano e perfino di Capodimonte, si poteva ammirare la presenza di un discreto numero di alberi di ciliegio. 
Nel libro "La ciliegia  a Napoli e in Campania", scritto dal gen. dott. Giovanni Baiano, apprendiamo i nomi delle diverse varietà di ciliegie da tempo coltivate in questo territorio; partendo da quelle primitive di aprile fino alle tardive di giugno, ne sono riportate tantissime, qui ricordiamo alcune. Le più antiche, ormai rare, sono le qualità: Cefrune, Corvine, Campanarelle e San Giuvannella. Quelle, invece, ancora per lo pìù diffuse, risultano essere: Acquaiola, Durona Rossa, Nera e Gialla, Majatica (detta anche Maggiaiola o Napoletana), Tostola, Giulia, Lettera, Ferrovia, Casertana, Gamba Corta, Arecca, Malizia, Curnaiola, Sanbruna (o Zambruna), Del Monte, Mulignana, Mulignanella, Campanara, Aspra, Amarena, Pagliarella
Le ciliegie hanno favorito anche la nascita dei toponimi in alcune località nelle quali prosperavano, come a Marano, ove esiste la cupa Malizia e la località Recca, termini derivati sicuramente dalle due omonime varietà di ciliegie autoctone (Malizia e Arecca).
Singolare è la etimologia della celebre qualità Arecca che, secondo lo scrittore Domenico de Luca, di Chiaiano, deriverebbe da reminescenze reali, infatti bisognerebbe ricondurre il termine alla parola "'A Re" o "A rex", ossia "ciliegia Re o ciliegia reale" e non dal nome del proprietario del tenimento che era un certo Recco, come sostengono in tanti.
La ciliegia della Arecca o Recca matura tra la prima e la seconda decade di giugno. È un frutto dalla forma leggermente schiacciata, formato da una buccia di colore rosso scuro brillante che protegge una polpa biancastra e succosa. Viene considerata la ciliegia di maggior pregio di tutta la Campania.
Nei secoli scorsi, specie durante il mese di Giugno, si poteva assistere al dolce andirivieni dei muli che facevano la spola continua tra le colline di Chiaiano e di Marano e i depositi magazzini dove avveniva la conservazione provvisoria delle ciliegie. Qui venivano sistemate nelle cosiddette “varriate”, che erano delle grandi ceste rettangolari (sporte), sostituite in seguito dalle “cerasare”, più piccole e pratiche. Interessante era il confezionamento dei frutti prima della vendita al mercato, che avveniva in piccole casse di legno, composte in maniera ordinatissima e allineata e poi racchiuse nella classica carta velina rosse. Le ciliegie erano anche lucidate con appositi scopini, ricavati da rami di felci.
Un altro appassionato cantore della bellezza della ciliegia è stato lo storico e poeta dott. Domenico de Luca di Chiaiano, il quale nel suo saggio sulle ciliegie "Mito e canto del ciliegio e della cerasa" ha decantato forse più di tutti l'alto valore culturale e, soprattutto, antropologico delle ciliegie nel nostro territorio.
Anche la raccolta delle ciliegie merita un'attenzione, perché avviene ancor oggi con altissime scale a pioli, in legno (di recente  anche in alluminio), simili a quelle adoperate per raccogliere l'uva Asprino. Il paniere, un tempo utilizzato per la raccolta sugli alberi, era chiamato "la fescena", forse per la sua forma ogivale, a cono e terminante alla base con una maniglia appuntita. Questa specie di impugnatura favoriva la presa a terra da parte delle donne che assistevano alla raccolta, quando questi panieri erano calati attraverso funi, evitando al raccoglitore di salire e scendere le lunghe e scomode scale di legno. Queste pratiche e questi accorgimenti dimostrano quanto sia duro il lavoro di raccolta delle ciliegie e per tale motivo il costo al dettaglio delle drupe è sempre sostenuto, proprio perché incide notevolmente la manodopera che occorre per il faticoso raccolto.
Fino a pochi decenni fa, specie nei momenti di ristrettezze economiche, la ciliegia rappresentava un frutto desiderato (cannaruto), soprattutto da bambini, dai ragazzi e dalle giovani spose, al punto che queste, allo stato di partorienti, minacciavano l'aborto o la nascita di figli con vistose chiazze maculate di "voglie di ciliegie" sul loro corpicino, se non venisse assecondata l'innocente e sacrosanta voglia di cerase...! Desiderio che si riusciva sempre ad appagare, anche in pieno inverno, quando non era proprio il periodo di maturazione delle ciliegie... Quante volte si è consigliato al disperato sposo di recarsi senza dubbi, presso il rinomato fruttivendolo, che ancora oggi si trova al  Ponte di Tappia, nei pressi di via Toledo? Lì le ciliegie c'erano sempre, forse perchè provenienti dall'Australia o dalla California, ma all'epoca era una vera e propria primizia in assoluto, irripetibile in altri posti!
Un tempo si diceva ai ragazzi, intenti a tracotare chili di ciliegie rosse... "Gugliù, stateve attiente, ca ve vene nu panteche...!". 
Cari lettori, non mancate alla "Festa della ciliegia di Chiaiano"....!
Salvatore Fioretto
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)