sabato 13 febbraio 2021

Giovanni Antonio de Teolis, detto il Campano, storico, filosofo, scrittore e poeta dell'umanesimo meridionale

Percorriamo spesso la strada che porta il suo nome, via Giovanni Antonio Campano, che è da tutti semplicemente indicata con il toponimo, tutto piscinolese, di: "A via nova 'e Chiaiano", ma pochissimi conoscono questo importante personaggio della storia letteraria della Campania e dell'Italia intera, nel periodo dell'Umanesimo.
Questa strada rettilinea, lunga quasi un chilometro, è di formazione alquanto recente, intorno agli anni '50, ma il personaggio è antico e, pur essendo campano di nascita, ha però ben poco a che fare con la storia del nostro territorio. Diciamo che si è trovato qui, quasi per caso, come Giovanni Bernardino Tafuri, d'altronde...
Ma andiamo per gradi, descrivendo la bella biografia di questo illustre personaggio dell'Umanesimo meridionale.
Giovanni Antonio de Teolis, che poi verrà riconosciuto con l'appellativo di "Campano", nacque nella provincia di Caserta, in un piccolo paesino chiamato Cavelle di Galluccio, nell'anno 1429, da una famiglia di origini modestissime e umili, formata probabilmente da cinque fratelli, di cui, oltre il nostro Giovanni Antonio, troviamo due fratelli certi, perché menzionati dallo stesso scrittore nel suo Epistolario, e si chiamavano Amerigo e Angelo, e altri due fratelli, non certi, che forse si chiamavano Antonio e Michele. 
L'infanzia del Campano fu subito segnata da una grave perdita, per la prematura scomparsa del padre, avvenuta a soli 35 anni. Apprese i primi rudimenti della cultura grazie al parroco del suo paesino nativo, e grazie a un suo zio, Teolo, che lo adottò e l'accolse nella sua casa. Intorno all'anno 1445 si trasferì a Napoli per intraprendere gli studi accademici, e guadagnandosi da vivere facendo il precettore dei rampolli della nobile famiglia Pandoni. Tra i suoi insegnanti universitari si riconoscono i celebri Niccolò Rainaldi da Sulmona e Angelo Catone da Supino. Nell'anno 1452 si mise in viaggio per la Toscana, ma si fermò a Perugia; purtroppo il progetto di recarsi a Siena assieme al fratello Amerigo, per seguire le lezioni del celebre giurista Mariano de Sozzini si interruppe, a causa di un assalto di banditi avvenuto lungo la strada.
A Perugia, Giovanni Antonio fu accolto sotto la protezione della influente famiglia Baglioni, nella quale fece da precettore ad uno dei suoi rampolli, e potette quindi studiare il greco, presso l'università cittadina. I suoi progressi furono notevoli, tanto che lo troviamo pochi anni dopo, nel 1455, assunto docente per coprire la cattedra di retorica, presso la stessa università di Perugia.

Nel capoluogo Umbro, il Campano ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare anche nella vita civile, pronunciando apprezzati discorsi nel corso di importanti eventi pubblici. Tra il 1457 ed il 1458, a causa dell'imperversare della peste in città, si rifugiò in una località sul lago Trasimento, e ivi compose alcune sue importanti opere, tra cui: De Felicitate Thrasimeni.

L'elezione al soglio pontificio di Pio II, il 19 agosto 1458, segnò una importante svolta nella vita di Giovanni Antonio. L'incontro con il nuovo pontefice avvenne durante la sua presentazione all'ambasciata perugina, nel 1459.

Papa Pio II
Nel successiva visita papale a Mantova, Campano, entrò in contatto con la cerchia della quale si contornava il pontefice, ed in particolare conobbe Giacomo Annanati, segretario pontificio e favorito del Papa. Quest'ultimo lo invitò ad aggregarsi alla curia romana, ottenendo l'impiego presso l'influente cardinale Filippo Calandrini.
Negli anni che seguirono, Campano ebbe modo di seguire il cardinale Calandrini, nel corso dei suoi numerosi viaggi nella penisola, in particolare a Mantova, a Rimini e nella stessa Perugia. Nel 1460 fu a Siena e, poi, di nuovo a Perugia per accompagnare le indagini del cardinale, su un omicidio avvenuto all'interno della celebre famiglia Baglioni.
Nel 1461 entrambi furono a Iesi e poi ad Ancona, per dirimere alcune controversie cittadine. Nello stesso anno, poi, i due accompagnarono il Papa Pio II a Tivoli, per verificare lo stato di costruzione del celebre castello. I suoi meriti e le sue capacità, ma soprattutto le sue raffinate doti poetiche, furono apprezzate da Pio II, tanto da nominarlo vescovo di Crotone, nell'anno 1462. Celebre in quell'anno la bellissima orazione funebre pronunciata da Giovani Antonio per i funerali del Cardinale di S. Susanna, Alessandro Oliva, del quale egli fu conoscente ed amico. Poco dopo, il Papa lo designò vescovo della diocesi di Teramo. In questo periodo il Campano ebbe un peggioramento della sua malattia, l'epilessia, i cui attacchi lo costrinsero a ripetute convalescenze. Nel
1463 lo troviamo a Viterbo, in occasione di un'altra visita papale, ma anche qui fu costretto alla convalescenza, a causa di altri attacchi di epilessia.
A Teramo passò a frequentare la famiglia Todeschini-Piccolomini, dalla quale uscì il successore papale, Francesco Piccolomini, al secolo Pio III. Il Campano accompagnò l'allora cardinale Piccolomini durante i suoi viaggi, diretti principalmente a Roma e a Siena. Tenne un'altra celebre orazione funebre, in occasione della morte del papa Pio II, avvenuta tra il 14 e il 15 agosto dell'anno 1464.
Negli anni seguenti, fino al 1470, il Campano si dedicò alle attività di correttore e di editore di testi antichi, presso alcune tipografie romane, in particolare, quella del tedesco Ulrich Han e quella del medico messinese, Giovanni Filippo de Legnamine.
Dal 1471 vediamo il nostro scrittore ad essere componente designato alle spedizioni diplomatiche (Legazioni), nella veste di oratore, grazie all'incarico ricevuto dal nuovo Papa, Paolo II. La "Legazione" riguardava lo stato della Germania, ed era finalizzata a dirimere la famosa "questione Turca", assieme alla risoluzione di altri problemi interni. Purtroppo la spedizione non ebbe successo, e il corpo diplomatico fece ritorno in Italia, passando per la Svizzera. Quell'anno segnò la scomparsa del papa, Paolo II.
Il successore di Paolo II, fu il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto IV. Il nuovo Papa conosceva bene Giovanni Antonio, avendolo apprezzato durante gli anni della sua docenza all'università di Perugia; quindi lo nominò, nel 1472, governatore di Todi e, successivamente, governatore di Foligno.
Fu fiduciario anche del cardinale Pietro Riario, nipote di Sisto IV, e lo seguì nella spedizione della "Legazione Umbra", nel 1473. Ottenne l'incarico di "poeta di corte", ma per pochi anni, perché il cardinale Riario morì prematuramente. Quindi ebbero termine gli incarichi di governatore di Foligno e di "poeta di corte". Cadde poi in disgrazia, per alcune problematiche interne e, pur ambendo alla carriera ecclesiastica, non fu però scelto alla nomina di vescovo di Teano e di Tricarico. Poco dopo tempo, seguì una ripresa dell'attività diplomatica, con la nomina a governatore di Città di Castello (1474). Caduto di nuovo in disgrazia, tentò di racimolare qualche incarico, come storiografo, presso la Corte di Napoli: all'epoca era re di Napoli Ferrante d'Aragona, ma quest'ultimo non accolse la sua candidatura. Ritornò a Teramo, per attendere alle cose della sua diocesi, pur cullando in cuor suo il proposito di riproporre la sua candidatura al re Ferrante.
Morì nel luglio del 1477, mentre si trovava a Siena, aveva 48 anni. Fu sepolto nel duomo della città. L'orazione funebre fu tenuta dal senese Agostino Dati.
Giovanni Antonio, detto il Campano, è stato un apprezzato oratore, ma anche un raffinato poeta  e, poi, scrittore, storico, stilista epistolare, editore e filosofo. Scrisse molte opere, ricordiamo: "Opera Omnia", "Braccii Perusini vita et gesta", "Vita di Pio II", "Raccolta di Poesie Latine", l'Epistolario, "De Felicitate Thrasimeni" e altre.
Salvatore Fioretto

domenica 31 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: la masseria delle Cesinelle, di G. Baiano (terza parte)

Nella terza parte di questo post, dedicato alle masserie del territorio, abbiamo scelto la bella descrizione della masseria delle "Cesinelle" di Chiaiano, tratta dal libro del gen. Giovanni Baiano: "Il figlio della selva". Intanto salutiamo e ringraziamo il caro amico e scrittore Giovanni.                                                      S. F.

Ecco il racconto:

"Le Cesinelle com'erano nel 2006.

Fino alla partenza per il servizio militare, eravamo trentadue residenti sulla masseria, a prescindere da chi veniva a lavorare e dai componenti della famiglia Sarnelli, che abitavano nella confinante masseria delle Cesine.
Nel periodo estivo, vi trascorreva le vacanze anche la proprietaria della masseria, la Signora Ina D'Aniello con il marito, Arduino dottor Pianese e due figlioletti, Checco (Francesco) e Pasquale, ed un altro ancora nel materno e vistoso grembo.
Spesso nelle ore pomeridiane, con uno dei due bimbi sulle spalle, per gli ombrosi sentieri, si arrivava fin dove c'erano ancora i resti di un'antica villa romana, in parte sotterrata.
Ivi giunti, ci sdraiavamo sui freschi e teneri prati scampati alla calura estiva e mentre si respirava quell'aria ricca di ossigeno e di profumi delle selve di Casaputana, si rimaneva per qualche ora ad ascoltare il suggestivo silenzio e la deliziosa voce di quel solitario, rinfrescante  e tranquillo luogo.
Avevo allora appena undici, dodici anni.
nel periodo della grande guerra, sulle Cesinelle arrivarono anche altre tre famiglie di sfollati napoletani, per un complessivo di ventisette persone.
E in quegli anni che si sono accumulati tanti ricordi che riposano sul letto della mia mente e ogni tanto si svegliano e mi pregano di non farli morire.
Sarà anche per questo motivo che ho deciso di fissarli una volta e per sempre su queste pagine, con la speranza di farli sopravvivere alla mia esistenza, quale memoria storica di un'epoca e di un contesto sociale ed ambientale, che continua ad evolversi in modo vertiginoso e preoccupante per le nuove generazioni.
Nonostante la guerra ed i bombardamenti e le tragiche vicende che seguirono, vissi lassù in un clima quasi sereno, forse perché per noi ragazzini la guerra era solamente un gioco per grandi, o comunque un affare che non ci coinvolgeva.
Alla fine dell'ottocento, mio nonno, nato e vissuto fino ad allora nel vicino Comune di Marano, e già proprietario di un piccolo pezzo di terreno in quella zona, prese in affitto circa nove moggi di terreno di questa masseria del Comune di Chiaiano ed Uniti.
Per abitazione, gli fu assegnato, a piano terra, un locale e tre stalle per gli animali domestici, due stanze al piano di sopra e una parte della soffitta, adibito a fienile, che noi chiamavamo "suppigno".
La stanza a piano terra era dotata di un rudimentale "fuculare" (focolare) ed era usata come locale in cui si ricevevano visite, si mangiava, si soggiornava e si depositava parte della frutta secca e cereali.
Era un locale abbastanza ampio che probabilmente era stato costruito oer la servitù, considerato che presentava una grande e robusta porta in legno, un pavimento sterrato, un soffitto sostenuto da grosse travi e listelli di legno di castagno.
Può anche darsi che fosse una stanza del fattore dove la moglie preparava i pasti. Col passare degli anni, l'utilizzo del focolare aveva annerite tutte le pareti ed il soffitto.
Solo negli anni Sessanta, mio padre la rese più decente con lavori di una rozza soffittatura, una rustica pavimentazione ed una pittatina alle pareti.
Al centro, c'era un vecchissimo tavolo molto lungo per dodici persone, con uno scanno di legno da un lato, su cui sedevano solo i figli maschi (cinque). Sulle sedie, agli altri tre lati, sedevano tutti gli altri appartenenti alla numerosa famiglia. C'era, inoltre, una grande cassapanca di legno, ai piedi del lettino del nonno, in cui erano conservati i pezzi di pane e le "freselle", cotti nel forno a legna.
A fianco al letto, accostato alla parete di destra, c'era pure un vecchio armadio per gli abiti e la biancheria intima del nonno, anch'esso tutto incrostato di nero fumo.
Quando io e i miei due fratelli, Vincenzo e Biuccio, raggiungemmo l'età della pubertà, al posto del letto del nonno fu piazzato un letto più grande per noi tre, perché non ci fu più concesso di dormire nella stanza con le nostre sorelline più piccole. Il lettino del nonno fu allora spostato sul lato opposto, ai piedi del nostro, diviso dalla suddetta cassapanca.
Questi letti erano fatti con due cavalletti di legno su cui poggiavano delle tavole, anch'esse di legno. I materassi erano dei sacconi pieni di foglie secche di mais (sbreglie), o di penne di pollame. Le lenzuola erano di tela di canapa, o di lino, così pure le fodere dei cuscini.
Nelle stalle non mancavano mai le mucche di latte, vitelli e vitelline, né maiali e maialini. Ogni famiglia aveva un asinello o un cavallo, galline da uova, pulcini, galli, capponi, anitre, tacchini, piccioli, conigli e coniglietti di tutte le taglie. Né mancavano due o tre cani e due o tre gatti per famiglia.
Era questo il patrimonio degli animali domestici d'ogni famiglia di contadini di quell'epoca in tutte le masserie della zona e dei vicini paesi.
Al piano di sopra, la stanza da letto più bella e ariosa e decorosamente ammobiliata era usata dai nostri genitori. L'altra interna, con poca luce ed appena dotata di un vecchio comò ed armadio, era occupata da noi figli maschi con meno di dieci anni e figlie femmine.
La masseria era costituita da un vecchio e caratteristico casolare del settecento.
Sorge in cima ad uno dei colli più bassi della collina dei Camaldoli a nord ovest dell'abitato di Chiaiano.
L'antico casolare presenta due corpi aggiunti, per ospitare quattro famiglie di coloni. Se ne costruì prima uno sulla sinistra rispetto agli ingressi e, in epoca più recente, un altro sulla destra.
La campagna circostante è ancora ricca d'alberi da frutta, con presenza di ciliegi, peri, meli, susini e viti di diverse qualità di uva. Siamo nel 2000.
In primavera, tutti questi alberi si caricano di tantissimi fiori dai vivacissimi colori, dal bianco candido al rosa, con svariate sfumature.
Nelle giornate di vento, si assiste ad una spettacolare pioggia di petali variopinti che svolazzano per l'aria, come fiocchi di neve e ricoprono la terra con un manto bianco rosato, su cui spiccano le teste di rossi papaveri e di tanti altri fiorellini di prato. D'estate, poi, quegli alberi si caricano d'abbondanti e saporitissimi fritti di vari colori e dalle varie forme, che si offrono con orgoglio e sempre volentieri a chiunque volesse assaggiarli, anche senza chiedere permesso.
La masseria delle Cesinelle, come tutte le altre della zona, aveva un cortile, un'aia, un forno a legna, un pozzo per la raccolta delle acque piovane, una cantina, che era chiamata "cellaro", ed un sottotetto (suppigno), che veniva usato come fienile.
Tutti questi locali erano d'uso comune oppure opportunamente ripartiti tra i quattro coloni.
Per la sua posizione in cima ad una collina e la composizione e ripartizione dei vari locali e servizi è certamente una delle più caratteristiche masserie della zona, dopo quella della contessa Fontanarosa costruita sul colle Ferrillo, in mezzo alle selve di castagno.
Alle spalle del fabbricato delle Cesinelle c'era un giardino con alberi d'aranci, mandarini e limoni, un fico, una bellissima e altissima pianta di palma, due vecchi alberi d'ulivo che non facevano mai frutto, un gruppo d'alloro, dei nespoli nataligni, detti anche nespoli pelosi.
Questo nostro giardino si distingueva dal resto della campagna per questi alberi particolari e per le rose e i gigli ed altri fiori.
Era l'orgoglio della mia famiglia, cui era stato assegnato, all'atto della divisione della masseria tra i quattro coloni.
Di tutto ciò è rimasto ben poco! Anche della centenaria palma è rimasto solo il tronco, uccisa come tante altre della zona da un verme killer.
Già da molti anni, le tre famiglie hanno abbandonato quelle abitazioni troppo anguste, troppo lontane dal paese e troppo isolate e prive di servizi di qualsiasi genere.
Cominciarono ad andar via, perché non c'era la luce elettrica, telefono e nemmeno acqua potabile, ma solo quella piovana raccolta nel pozzo, piena di vermiciattoli.
Fu solo durante la grande guerra che fu costruito un deposito nel ventre del tufo della nostra selva, quale riserva d'acqua del Serino per la zona ospedaliera.
Tutti i santi giorni, specialmente nel periodo estivo, bisognava scendere laggiù per attingere almeno quella quantità che si usava per bere e cucinare.
Non era così semplice e facile recarsi fin dove passava quella condotta d'acqua. Bisognava attraversare un sentiero nella campagna del nostro vicino, compare Nicola. Si scendeva per una rapida costa di quella nostra selva, attraverso uno stretto viottolo, o saltellando in mezzo agli alberi di olmi, querce ed altri di cui ho sempre ignorato i nomi. Giunti nel suo fondo, si andava avanti, ancora per un breve tratto tra castagni e ginestre, fin sopra il sottostante canalone di Cupa Vrito, dove passava la condotta.
In un certo punto  c'era un tombino coperto da una pesante piastra di ghisa, che bisognava sollevare con un paletto di ferro.
Ci si calava dentro, e, con una chiave inglese, si faceva girare una grossa vite per fare uscire l'acqua da un tubo. Riempiti i due secchi, si richiudeva quella vite, si saliva sopra e si rimetteva al suo posto il coperchio sul tombino. Si tornava indietro per lo stesso ripido viottolo che attraversava il costone, fermandoci ogni tanto per dare un po' di tregua alle mani indolenzite ed al fiato. Ancora altri centro metri circa, tutti in salita e si arrivava sopra la terra del nostro vicino. Lì, dopo un gran respiro di sollievo, ci si buttava per terra per un più lungo riposo, per poi ripartire sempre con quei secchi in mano. Si giungeva a casa senza più forze e con entrambe le mani e braccia indolenzite, maledicendo il nostro destino.

C'era un'altra possibilità di prelevare l'acqua , si scendeva per la strada che conduceva al paese fino alla grotta delle Cesinelle ed anche lì, nella terra del nostro vicino, soprannominato 'o Quartese, c'era un altro tombino con coperchio di ghisa, in cui si doveva scendere per attingerla con le solite operazioni di svitamento e riavvitamento.
Personalmente preferivo andare nella mia selva, dove mi sentivo a mio agio e soprattutto più protetto, per la presenza anche di una fitta vegetazione.

Quella sita nei pressi della grotta era allo scoperto ed io avevo sempre paura di essere sorpreso dagli addetti all'acquedotto, pur sapendo che il prelievo non era vietato a noi coloni della masseria.
Credo che, tra i tanti altri motivi, anche questo sia stato determinante per le mie future decisioni. Ma di queste è ancora troppo presto per parlarne.

Tanto perché si abbia un'idea di come si viveva nelle masserie in quell'epoca, anni Quaranta-Cinquanta, vi dirò che per studiare fino a tarda notte, facevo uso di un lume a petrolio, che mi riempiva le narici di un fumo nero puzzolente e mi faceva bruciare gli occhi. Con la luce del giorno dovevo aiutare mio padre e miei fratelli nei lavori dei campi e della selva.
Nel buio si usavano candele, lumini ad olio e lumi a petrolio. Quando invece, tirava vento e bisognava uscire allo scoperto, si usavano lumi dotati di una campana di vetro, per proteggere la piccola fiammella dal vento e dalla pioggia. La luce ed il telefono fu possibile ottenerli e utilizzarli solo dopo gli anni Sessanta.
Abbandonata a se stessa, quella masseria sta morendo a poco a poco ed io sto assistendo alla sua agonia senza poter far nulla, se non dedicargli dei nostalgici versi."
gen. Giovanni Baiano

Racconto tratto dal libro "Il figlio della selva", di Giovanni Baiano, ed. Collana Poetica Campana, anno 2017 (pagg. 33-38).

Masseria delle Cesinelle, foto di Ferdinando Kaiser

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Ringraziamo il caro amico, scrittore, Gen. Giovanni Baiano, per averci autorizzato alla pubblicazione di questa parte del suo libro dedicata alla sua cara Masseria delle Cesinelle.

Riprendendo l'elenco delle masserie presenti nel territorio, ecco quelle che risultano esistenti nel territorio di Chiaiano, Polvica, S. Croce, Tirone, Nazareth e Orsolona. Alcune di queste sono state trasformate, abbandonate o demolite. Ovviamente, come scritto anche nel precedente post, l'elenco non può essere considerato esaustivo ed è probabile che le alcune masserie sono state elencate più di una volta, con nomi diversi assunti nel tempo.

Chiaiano - Calori - Santa Croce

Dalla mappa di Rizzi Antonio Zannone (1793) si rilevano i seguenti siti, che potrebbero essere stati delle masserie:

-"Riccio"
-"Tutore"
-"Pinto"
-"Colamanca"
-"Cerullo"
-"Martina"
-"Barca"
-"Bocchetta"
-"Brancaccio"
-"Villarosa"
-"Toscanella"
-"Giannone"
-"li Mennilli"
-"Castellaccio".

Masseria Della Corte in via Gaetano Salvatore (Foto di Salvatore Fioretto)

Dal Libro "Santa Croce, nella storia", sono menzionate e illustrate le seguenti masserie delle località di Santa Croce e Calori:

-Masseria "Quaranta"
-Masseria "Marzocchi"
-Masseria "Della Corte" (Ponte Caracciolo)
-Masseria “a Vass’o Cuofane” (Santa Croce)
-Masseria "Palmetiello"
-Masseria "Raiano"
-Masseria "Tre Moggi"
-Masseria "di Lorenzo" (Detto "Peppe ‘o Pitone")
-Masseria "Capuozzo ai due Portoni"
-Masseria "Arco Pinto-Rusciano" (Calori)
-Masseria "Calori di sotto"
-Masseria "Calori di sopra"
-Masseria "Romano" ('Ncopp''a selva - Calori)
-Masseria “Varriale” Chiavazzo (Calori)
-Masseria “Buccio” - Manco (Calori)
-Masseria “Avolio - De Biase"
-Masseria (?) "Villa Vittoria".

Nomi di masserie tratti da altre pubblicazioni:

-Masseria "Terravicina"
-Masseria "Paratina"
-Masseria della "Contessa di Fontanarosa"
-Masseria "Cesine"
-Masseria "Cesinelle"
-Masseria "Fioretti".

S. F.


sabato 30 gennaio 2021

Al car.mo amico e scrittore del libro "Piscinola, la terra del Salvatore", di Don S. Nappa

In occasione del decennale della pubblicazione e della presentazione del mio libro "Piscinola, la terra del Salvatore", ho deciso di rendere pubblica la bella lettera che mi ha fatto pervenire il carissimo monsignore don Salvatore Nappa, nella primavera del 2012. Oltre alle belle parole di apprezzamento per il mio lavoro, don Salvatore giustamente ha sottolineato che nel libro ci sono pochissimi riferimenti alla sua azione pastorale e sociale nella comunità piscinolese dell'immediato dopoguerra, come aiutante della Parrocchia del SS. Salvatore.
La lettera è una bellissima testimonianza che racconta uno spaccato di vita del quartiere, in un momento difficile che fu quello della fine della seconda guerra mondiale; ma nonostante le ristrettezze e le difficoltà economiche, la comunità, soprattutto i ragazzi e i giovani, seppero reagire, mostrando un forte senso di appartenenza e una gran voglia di riscatto, attraverso la cultura e lo sport. Ai due nostri Sacerdoti, D. Salvatore Nappa e D. Domenico Severino bisogna riconoscere e apprezzare la preziosa opera di guida alla formazione, non solo religiosa, ma anche culturale, sociale e sportiva, dei giovani di quel periodo.
In quanto al riconoscimento della sua personalità a Piscinola, come promesso, ho dedicato il secondo mio libro del Centenario della Piedimonte: "Comm'era bella la Piedimonte" nel 2014 a don Salvatore Nappa, facendogli dono della prima copia stampata, nel suo studio, nella canonica a Marianella.
Ecco il testo integrale della lettera ricevuta da mons. don Salvatore Nappa:

"Finalmente ti posso dire: ho letto tutto il tuo libro "Piscinola la terra del Salvatore", e mi compiaccio sinceramente con te, che non solo ci hai fatto conoscere tante belle cose del passato su Piscinola, ma ci hai confermato tante belle cose dei nostri tempi, che io e i miei contemporanei conosciamo. Quanto studio da parte tua, quanta pazienza, quante belle cose dei nostri contemporanei e specialmente dei nostri antenati.
Ci voleva proprio tu, con la tua pazienza, con il tuo studio, con la tua volontà e la tua capacità, e solo tu ci sei riuscito a portare a termine questo lavoro su Piscinola, perché altri ancora hanno cominciato ma solo superficialmente e dopo poco tempo hanno alzato le mani, tra gli altri ricordo "Monsignor Umberto Scandone", di Piscinola, ma Parroco a Porta Piccola, che scrisse però solo un opuscolo, che io ho letto, e che fece poco effetto, tu invece hai cominciato e superato tutte le difficoltà arrivando gloriosamente alla fine.
Una cosa sola ci hai mancato, che per me è molto importante, ma ti perdono, però solo a metà, perché tra me e te c'è una bella differenza di età e poi io non sono vissuto stabilmente a Piscinola, perché, per volontà dei miei superiori, due anni dopo la Consacrazione e cioè nel 1944, andai a dirigere altre Parrocchie e quindi me ne andai da Piscinola, però tu sapevi della mia presenza, perché una volta ci siamo incontrati, ma non ci siamo parlati, per esempio in quella che fu la sede, per poco tempo, "degli amici" a via Vittorio Veneto, dove mi portò mio nipote "Nappa Salvatore", e dove parlai di tutta la mia vita, ma non ci incontrammo e non parlammo.
Non ho mai saputo niente del lavoro su Piscinola che tu stavi facendo e solo dopo che l'hai presentato e c'era anche mio nipote Salvatore che me ne parlò e mi portò il tuo libro, che io ho letto, come ti ho detto, ed ho apprezzato moltissimo e non solo per le molte e belle notizie piuttosto recenti, ma soprattutto per quelle antichissime che nessuno conosceva.
E adesso, per quanto riguarda me e la mia presenza in Piscinola, devi sapere che io sono stato per una decina di anni e cioè dal 1935 al 1945 protagonista assoluto. Nel 1935, infatti avevo appena terminato la 5^ ginnasiale, con ottimi risultati, quando un padre di un ragazzo che io conoscevo, mi disse "Don Salvatore volete preparare mio figlio per la prima ginnasiale?" Si, risposi, ma con un po' di preoccupazione.
Per la verità, ci riuscii bene e, da quel momento, uno stuolo di ragazzi anche da Marianella e da Miano vennero da me per essere preparati agli esami di riparazione ad ottobre o per l'italiano, o per il latino, o per la matematica.
Diventai poi Sacerdote, oltre a continuare con la scuola ai ragazzi, mi interessai dei giovani dell'Azione Cattolica nel circolo di via Vittorio Emanuele. Erano quasi "200" i giovani ed i ragazzi che frequentavano alla sera, con mio sommo piacere, e che diedero inizio alla filodrammatica e alla recita del Rosario alla sera fino alla chiesetta della Madonna delle Grazie, e non mancava ogni settimana la riunione in sede per studiare il testo di cultura religiosa.
La novità avvenne quando verso la fine dell'anno 1943, vennero i soldati americani a Piscinola e pigliarono possesso dell'Edificio scolastico e dei locali del Municipio, dove misero, per poco tempo, il tavolo di Ping Pong e quindi alla sera, dopo la giornata di servizio, tutti a divertirsi attorno al tavolo.
La presenza dei soldati americani costituì per tutti noi, come è chiaro, non solo una novità, ma anche una grande curiosità per cui alla sera, io e alcuni altri ci avvicinavamo alla caserma e ci fermavamo al di fuori della sala ex teatro dove stava il tavolo ed eravamo curiosi di sentire il tic tac della pallina senza che qualcuno ce lo spiegasse. E solo dopo un po' di tempo, quando riuscimmo a sapere tutto da uno dei nostri ragazzi che era stato in collegio, decidemmo di cominciare a fare i primi passi necessari per mettere, nel nostro circolo, il Ping Pong.
E così una mattina, io, don Mimì (d. Domenico Severino, sacerdote) che stava sempre con me e altri due giovani, andammo a Napoli, a piedi s'intende, perché i ponti e di S. Rocco e di Miano erano stati abbattuti dai tedeschi. Io sapevo che al Museo, nei pressi di Piazza Dante, c'era un negozio di attrezzi sportivi, e senza perdere tempo andammo dentro e ci facemmo prendere tutto l'occorrente ma senza che ci fosse la volontà di comprarlo perché non tenevamo i soldi.
Così vedemmo tutto quello che ci voleva, ringraziammo il padrone del negozio, e andammo via. Ma per la via del ritorno subito tirammo le prime conclusioni, perché don Mimì si offrì a preparare la retina con lo spago che già aveva, a procurare la pallina perché conosceva un soldato americano e poi l'amico Scaglione Angelo, falegname si pigliò il compito di fare le racchette e di aggiustare il tavolo che già tenevamo e dopo che tutto fu pronto si cominciò a giocare. Ma quante risate, e quante volte la pallina cadeva a terra. Ma dopo pochi giorni le cose si misero a posto, prima, secondo le poche regole che ci aveva suggerito il nostro amico del collegio e, poi, con le regole giuste che ci avevano fatto conoscere alcuni soldati americani diventati nostri amici. Devo dire, per la verità, che col passare del tempo alcuni giovani divennero così bravi, che cominciarono a sfidare a livello regionale i giovani delle altre associazioni. Però quando io andai a fare il Parroco nella zona di Poggioreale portai con me il tavolo del Ping Pong e questo trattamento serale, piano piano finì completamente.
Quanto alla palla a canestro: per cominciare si dovette aspettare più tempo perché si dovette aggiustare la piazza avanti all'Edificio scolastico, modificare le lampade elettriche perché si doveva giocare alla sera e recintare il campo.  Fin dalle prime partite, io e don Mimì fummo presenti insieme ad un gruppo di giovani. E quando ci rendemmo edotti di questo nuovo sport, cominciammo a pensare come farlo anche noi, ed il luogo adatto era il cortile della sede dell'Azione Cattolica, accanto alla grossa pianta di fichi, lo allivellammo, lo illuminammo perché bisognava  giocare di sera e tutti d'accordo per cominciare si decise per la sera della vigilia del Santo Natale 1944.
Io guidavo una squadra e don Mimì l'altra, e ci mettemmo a giocare ma una pallonata andò a finire sopra i miei occhiali che caddero a terra e si ruppero e fu questo il battesimo della palla a canestro del Circolo Cattolico di Piscinola.
Nel mese di luglio 1945, io andai via da Piscinola e don Mimì prese l'impegno del Circolo e dei giovani e fondò la squadra "Virtus", che si è fatto e si sta facendo molto onore.

mons. Nappa Salvatore   
     

mercoledì 27 gennaio 2021

Lo cunto della Sòvera ca nun voleva morire…!

‘Nce steva, tantu tiempo fa, ‘na campagna, doce e gentile, cu llà vicino ‘na masseria antica…, ma antica assaje…! Per lo mmiez’’a nu Casale ‘e Napule, de’ chille antiche ‘e ‘na vota…
‘Sta campagna teneve tanti piante e àrbere, cierte vecchie assaje: 'Na pianta ‘e lauro, n’ata ‘e fico, po’ ‘na ceveze, tanta nucelle, e peré ‘e chiuppe, chille nire nire, ma ca facevano fungie ghianche e doce comm’‘o latte!
Mmiez’’a sta terra nce steva n’at’àrbero, curiuso assaje, pure isso assaje viecchio: teneva ‘na curteccia nera nera, tutta vacante dinto… Tutt’‘a gente ‘e ‘stu posto 'a chiammavano: Sòvera…!
Quant’anne tenarria, nisciune ‘o pùtarria sape’…; ‘e cchiù viecchie parzunale, ca tenevano cchiù ‘e ottant’anne, diceveno ca se ll’arricurdavano sempre accussì, sempe vecchia e scavata dinto, ‘a quanno erano state pure lloro guagliune…!
Miez’’a chella bella terra de ‘stu Casale, nce steva ‘nu guagliunciello peccerillo, ca se chiammave Turillo, ca era nato proprio dint’a chella masseria...
Turillo vuleva bene a tutte ‘e persone ca stavene ‘e case llà dinto e tutti vulevano pure bene ‘a Turillo…
‘O spasso ‘e stu guaglione era chillo ‘e sta’ tutt’o ghiorno sempe miez’'a ll'aria ‘e chella masseria. Turillo era bellillo,... curreve, curreve sempe, d’’a matina ‘a ssera, p’’e llemmate e p’’e sseparelle e ghieve pure ‘ncoppe ‘e bbinarie d’’o treno… Turillo tenevo sulo 'o pate, pecchè ‘a mamma era morta quann’era assaje peccerillo… E dint’’a chella massaria senteva tutt’‘o calore e ‘na famiglia…!
Turillo vuleve bene a ‘sta natura, a tutte ll’aucielle e pure a tutte l’arbere ‘e chella campagna.. E miez’'a chelle, po’, s’era ‘nnammurato 'e chella pianta vecchia ‘e Sòvera… Pecche’ 'a trattava comm’a ‘nu nonno viecchio! 
Dimandave spisso nutizie ô pate, e a ll’atre viecchie, ma pure chilli dicevano sulo che ‘a Sòvera era vecchia assaje… Dicevano ancora ca chisto era n’àrbero affatato, pecché se raccontava ca ‘ntiempo antico, llà ce ne stavano doje d’àrbere comm’’a cchisto, e ‘nu juorno, cierti cuntadini, scavanno ‘e ffuosse miez’’a esse pe’ semmenà ‘e perzeche, truvajene n’anfolla assaje gruossa e antica, ca llà sotto era ‘nterrata… e rumpennela pe’ vede’ che nce stava d’into, truvajene sulo ‘na pòvera gialla, comm’’a ccennèra. Tiempo doppo, se dicette ca chella pòvera, c’avevano pigliato p’’e ccennèra, ‘nvece era oro…, oro ffino…, ma chille però nun l’avevano capito e l’avevano ghittate, sparpaglianno tutto miez’’o turreno…!
L’anne passavano e ‘sta pianta faceva sempre pochi frutti, carevano sempe ambressa e nisciuno riusceva a fa’ ‘e piennule.
Quarcuno dint’a l’autunno raccoglieva pure ‘e foglie ‘a terra, pecchè dicevano che curavano cierti malatie d’'e viecche e d’'e giuvane…
Turillo, ogni tanto ca passava mmiez’’a chella terra, ‘o pensiero suojo era sempe chillo 'e ghi’ a vede’ 'sta pianta comma steva. Era po’ sempe curiuso ‘e guardà dint’’a "scafongia", se ‘nce steva quarcosa annascuso…, ma niente, quacche vota però n’asceva ‘na lucertolella…
Sta pianta, pure se era sturpiata p’’a vvicchiaja, puteva campà ancora pe’ tanta secule; era accussì attaccata ‘a vita, ca pure se teneva meza curteccia cunsumata, cu ‘o vacante mmiezo, era viva e campava sulo cu ‘nu parme ‘e scorza ‘e lato, ma pe’ chillu tanto ca bastava pe’ purta’ nutrimento ‘a cimma soja ‘e ncoppa!
Turillo ‘nu ghiorno, pensanno ca ‘o viento o ‘na tempesta putesse schiantare ‘a pianta, ‘nce attaccaje ‘nu tirante d’‘e acciaro, pe’ ‘a tene’ tirata e ferma, ‘o lato d’’o punto debole…
E accussì facenne se sentiva cchiù sicuro.., ma ‘stu guaglione, ca s’era fatto già grussiciello, nun aveva fatto ‘o cunto ca ‘o nemico ‘e sta pianta era ‘e n’ata specie: nun erano tempeste e sfuriate ‘e viento, ma era chillu “male” ca se chiamma “prugresso”: nu “male” brutto e ‘ncurabile assaje, ca se magna ‘e campagne, cu ‘e sciure e cu ll’àrbere e porta sulo distruzione e malaciorta addo isso passa!
‘O Guaglione, mentre cresceva, accuminciava ‘a sentere sta minaccia avvicinarse sempe ‘e cchiu’, pecché, comme careno è bombe dint’a ‘na guerra, sempe cchiù vicine, propritamente accussì ‘o rummore ‘e 'stà minaccia s’avvicinava sempe ‘e cchiu’…!
Turillo accuminciava a pensa’ ca era già tutto già destinato e che ‘sta pianta ‘e Sòvera eva murì priesto, nzieme ‘a terra soja...!
‘Nu ghiorno ‘sta pianta seculare, ca era stata sempe ‘o stesso e nun aveva mai fatte rampule nuovi, cacciaje ‘nu figliulillo ‘e latte ‘a dint’’e radeche…

....Ll’omme nun sanne, ca ‘e piante teneno ‘nu core e arragionano meglio ‘e lloro, e esse sanno pure ‘ntiempo quann’è arrivata ‘a fine loro…!!

Turillo rimmanette senza parole pe’ sta nuvità, ne parlaje cu ‘o pate, e accussì decidette 'e farlo crescere pe’ n’at'anno, fino a vierno.
‘O guaglione aveva capito ‘o messaggio ca ll’aveva mannato ‘a pianta ‘e Sòvera: ‘A pianta vuleva cuntinua’ a campà, e sapenno ca nun era possibile pe’ essa stessa, aveva pensato ‘e lascià ‘nu figlio suojo, ‘a fa’ crescere ‘a Turillo!
Accussi dint’’a vierno ‘o guaglione sceppaje ‘stu frustillo, ca era fino fino, duppio quanne a ‘nu retillo d''a mano, e sotto a isso teneva ‘nu capillo pe’ radechèlla… Turillo, senza ‘nce penza’ ‘ncoppa, atterraje ‘sta mazzarella d’into ‘o ciardino ca teneva vicino ‘a casa; dint’a chillo ca era ‘o posto cchiù sicuro e arreparato... 
Dint’’a primmavera appriesso ‘sta mazzarella ‘e Sòvera, cacciaje pochi buttune ‘e foglie…
Ma doppo n’anno ‘e vita, se seccaje ‘a cimma. Turillo pensaie subbeto che era morta…! Po’ dicette: "nun ‘a scippo ancora, mo ‘a pòta e vedimmo che succère…"
E, infatti, tenette raggione, pecché dint’a chella pprimmavera ca venette appriesso, ‘sta pianticella se vestette n’ata vota ‘e ffronne, e accumenciaje a crescere chianu chianu.
Passajene n’atu pare d’anne, e chillu presentimento c’aveva tenuto ’a pianta ‘e Sòvera, s’appresentaje senza piatà...!
S'appresentaje ‘nu mostro, cu “pale meccaniche”, “ruspe” e “motoseghe”, e tutt’‘a putenza e ’a malignità ca l’ommo caccia, cu 'a scusa d’’o prugresso e d’’o benessere ‘e l’atre…! E accussì ghittaje ‘nterra, ‘mbaranza, tutte l’àrbere ‘e chella bella campagna…, accerennole!!
Turillo nun vulette abbanduna’ l’àrbere suojo mentre carevano muorte, comme fa ‘nu figlio vicino ‘o llietto ‘e ‘nu pate o ‘na mamma ca ‘sta murenne... E vedenn’‘a piante soja ‘e Sòvera ‘nterra senza vita, chiagneva, chiagneva disperato, chiagneva comm’’a ‘nu criaturiello…!!
Turillo s’era fatto grusso, e ll’àrbero ‘e Sòvera (figlio) era crisciuto e s’era fatto sempe cchiù gruosso. L’anne passavano e ‘sta pianta cresceva sulamente, ma nun faceva maje ‘nu sciore, mai ‘na Sòvera…
Addivinataje n’àrbero assaje gruosso!
Turillo parlava spisso cu ‘o pate e ‘sta cosa strana, e lo diceva:… “Pa’, ma forse è servatica ‘sta pianta, visto ca nun fa' maje Sòvere?” E po’: “Pure se l’avessa ‘nzertà, add’’a piglio n’ata Sòvera? Cca attuorno, oramaje, campagne nun nce stanno cchiù… !?
Responneva ‘o pate: ”Turì, tu nun ‘o saje, pecché sì giovane, ma l’àrbero ‘e Sòvera, pe’ caccià ‘e Sòvere, s’adda fa' viecchio, ma viecchio assaje…, si no’ è Sòvere nun è fa' maje…!!
Doppo quarche anno, Turillo chiagnette n’ata vota, pe’ n’ato dulore forte assaje, pecchè ‘o pate murette e ‘o lasciaje a isso sulo…!
Ancora affranto p’’o dispiacere avuto, ‘o ggiovane l’anno appriesso pensaje ‘e taglià ‘a pianta. Diceva: “Ma ca me serve ‘sta pianta ca nun fa Sòvere, ma fa' sulamente ombra e, po’, ‘nu sacco ‘e fronne…?!”. Pero’ nun tenette ‘o curaggio d’’o fa'...! Allora pensaje: “Mo faccio passà n’at’anno ‘e tiempo, taglio sulamente quarche rampulo ‘e vascio, e vedimmo ca succère...
Dint’’a chella primmavera, mentre ‘a pianta cacciava ‘e fronne nove, n’abbondanza n’ata vota, Turillo vedette ‘na cosa strana dint’'e rampule: ‘nce stavano llà ‘ncoppo cierte pampuglie ‘e ‘nu culore ghianco e rrosa… ma belle assaje!!
Turillo nun l’aveva maje viste fino ‘a tanno, ma chille erano ‘e sciure d’’a Sorvera, ca erano schiuppate p’’a primma vota!
E accussì chill’anno Turillo magnaje p’‘a primma vota ‘e Sòvere nove ‘e l’àrbero figlio d’’a Sòvera accisa... E accussì, ogn’anno, ‘n'abbondanza…! 
Da tanno, decidette ‘e nun taglià cchiù l’àrbero, ma d’’o tenè pe’ sempe, pe’ ricordo: d’'a terra, d’'a Sòvera vecchia e d’’o pate, ca nun ce stavano cchiù!
 
Chestà ‘e a storia d’a pianta ‘e Sòvera ca nun vuleva murì, ma vuleva campà…!
Ll’àrbere tenene ‘nu core e vonno campa’ pe’ sempe cu ll’ommo! Ll’ommo ‘e surdo e chistu messaggio nun l’ha capito ancora!
 
O’ cunto è furnuto, loro stanno lla’ e nuje stamme cca!
Salvatore Fioretto
 
Il "Cunto" è stato liberamente tratto da una storia realmente accaduta. Tutti i diritti di pubblicazione sono riservati all'autore.
 
 (Segue la traduzione in Italiano)
 
Traduzione:

Il racconto del Sorbo che non voleva morire…!

C’era una volta, tanto tempo fa, una campagna dolce e gentile, e vicino ad essa un’antica fattoria, ma molto antica. Essa era posta nel centro di un borgo di Napoli (Piscinola), tra quelli più antichi …
Questa campagna aveva molte piante e alberi, alcune molto vecchie: un albero di alloro, un altro di fico, un gelso, molti noccioli e pioppi, di quelli con la corteccia nera, che producevano dei funghi bianchi, dolci come il latte!
Al centro di questa campagna c’era un albero, molto curioso, anch'esso molto vecchio: aveva un tronco con la corteccia nera, ma vuoto al suo interno… Tutti gli abitanti del luogo chiamavano quest’albero “Sovera” (Sorbo)…!
Quanti anni avesse quest’albero nessuno poteva saperlo… infatti i
contadini più anziani, che avevano oltre ottant’anni, ricordavano quest'albero immutato, fino dagli anni della loro infanzia: si era mantenuto immutato nel tempo, sempre così vecchio e vuoto dentro…!
Nella bella campagna di questo Borgo viveva un ragazzetto, che si chiamava Turillo (Salvatore), nato proprio in questo tenimento agricolo…Turillo voleva molto bene a tutte le persone che abitavano in quel luogo ed esse ricambiavano l’affetto per Turillo…
Tra i divertimenti di questo ragazzo c'era quello di trascorrere intere giornate a giocare nell’aia di quella fattoria.
Turillo era un bambino carino, piaceva giocare e correre, dalla mattina alla sera e, poi, attraversare i sentieri e gli anfratti esistenti nella campagna; soleva anche camminare sulle rotaie della ferrovia che stava lì vicino…
Turillo aveva solo il padre, perché la madre morì quando era ancora piccolo… Egli però percepiva in quella fattoria tutto il calore di una famiglia vera…!
Turillo voleva molto bene alla natura, a tutti gli uccelli e anche a tutti gli alberi di quella campagna… Tra quelli, poi, s’era innamorato del vecchio albero di Sorbo… Lo considerava alla stregua di un vecchio nonno!
Chiedeva sempre sue notizie al padre e agli altri anziani del Borgo, ma questi dicevano solo che l’albero era assai vecchio… Dicevano, ancora, che questo era un albero magico e che in antico tempo in quel luogo c’erano due alberi di Sorbo uguali. Un giorno alcuni contadini, scavando
tra di essi alcune buche,  rinvennero un’anfora interrata. La ruppero, per osservarne il contenuto, ma trovarono al suo interno solo della polvere gialla, come la cenere. Tempo dopo, si disse che quella polvere, che questi avevano scambiato per cenere, era invece oro, ma oro fino… ma essi non avevano compreso e l’avevano cosparsa nei dintorni…!
Trascorrevano gli anni e quest’albero fruttificava poco; quei pochi frutti prodotti cadevano presto al suolo e non si riusciva a raccoglierli in mazzetti. Alcuni contadini usavano raccogliere anche le foglie caduche, perché le ritenevano utili per curare alcune malattie di persone anziane e di giovani…
Turillo, quando attraversava la campagna, era attratto sempre da quest’albero e piaceva osservarlo per costatare lo stato vegetativo. Sovente, era incuriosito a scrutare la cavità interna, sperando di scoprire qualche oggetto nascosto… ma non trovava mai niente; a volte però da essa
usciva una piccola lucertola…
Quest’albero, anche se era "acciaccato" dalla vecchiaia, poteva sopravvivere ancora per molti secoli; era così pieno di vita, pur presentando un’ampia sezione di corteccia rinsecchita e solo una parte viva, che, benchè piccola, era sufficiente e bastava ad apportare il nutrimento alla chioma!
Un giorno, temendo che il vento forte potesse spezzare l’albero, applicò un tirante d’acciaio che lo tenesse stabile e sorretto nel lato del suo punto debole. Così facendo si sentiva sicuro…; ma questo ragazzo, che ormai era cresciuto e diventato giovanotto, non aveva considerato che il nemico di quest’albero era di un'altra specie: non erano temporali e vento forte, ma quel male che si chiama “progresso”: un male molto brutto e invincibile, che divora campagne, con alberi e fiori contenuti e porta soltanto distruzione e maledizione dove esso attraversa!
Questo giovane, mentre cresceva, iniziava a percepire questa minaccia avvicinarsi sempre di più: perché, come cadono le bombe durante una guerra, avvicinandosi col rumore sempre di più, similmente la percezione del sopraggiungere di questo nemico si faceva in Turillo sempre più forte e vicina!
Turillo iniziò a rassegnarsi, pensando che era tutto destinato e  che questo Sorbo doveva morire presto, assieme alla sua bella campagna…!
Un giorno, quest’albero secolare, che restava immutato da decenni, e non aveva mai fatto nuovi rami, generò un piccolo germoglio alla sua base, appena sotto il terreno…

… L’uomini non sanno, che gli alberi hanno un cuore e ragionano meglio di loro, esse sanno pure quando arriva la loro fine…!!

Turillo rimase sbalordito per questa novità, e riferì l'accaduto al genitore, mentre decise di farlo crescere un altro anno, fino al successivo inverno.

...Il ragazzo aveva inteso il messaggio affidatogli dall’albero di Sorbo: la pianta voleva continuare a vivere, ma presagendo che era impossibile, aveva pensato di lasciare un suo “figlio”, da affidare alle cure di Turillo!

Quando si ripresentò l’inverno, il ragazzo estirpò la piantina, che aveva un fusto sottilissimo, spesso quanto a un dito della mano, e presentava una piccola radichetta, sottile come un pelo….
Turillo, senza pensarci su due volte, piantò il virgulto nel giardino che aveva vicino alla sua casa, nel posto più sicuro e riparato dalle future distruzioni…
Nella primavera successiva questo piccolo Sorbo emise le prime gemme e poi le foglie… Ma, dopo un anno di vita, si seccò la chioma. Turillo pensò subito che l'alberello fosse morto…! Poi risolse: “Non l’estirpo ancora, adesso eseguo una potatura e vediamo cosa succede…”. Infatti ebbe ragione, perché nella successiva primavera la piantina si rivestì di foglie e iniziò a crescere lentamente.
Trascorsero alcuni anni e quel presentimento, che Turillo aveva avuto e temuto, si fece realtà e si presentò senza pietà…!
Il “mostro” si materializzò con pale meccaniche, ruspe e motoseghe, con tutta la potenza e la malignità che gli uomini manifestano con il pretesto del progresso, del benessere e del bene comune…! E così furono recisi tutti gli alberi di quella bella campagna, uccidendoli tutti per sempre!
Turillo in quel tragico evento non volle abbandonare i suoi alberi, mentre cadevano morti, così come si comporta un figlio presso il letto di un padre o una madre moribondi…! Osservando l’albero di Sorbo adagiato sul terreno, privo di vita, piangeva disperato, piangeva come un bambino…!!
Turillo era diventato ormai adulto e il nuovo albero di Sorbo (figlio di quello vecchio) era cresciuto e divento grande. Trascorrevano ancora gli anni e quest’albero cresceva soltanto, ma non produceva mai fiori e, quindi, mai frutti…! Divenne un albero poderoso!
Turillo interrogava a tal proposito il padre, dicendo: “Papà,
visto che l'albero non fruttifica, sarà forse selvatico? E poi: “Semmai lo dovessi innestare, dove potrei trovare le marze della specie originale? Qui attorno le campagne sono ormai scomparse..!
Rispondeva il padre: “Tu non lo sai, perché sei giovane, ma l’albero di Sorbo per fare i frutti deve diventare grande e adulto, altrimenti le sorbe non le produce…; ci vorranno ancora degli anni...!!”.
Dopo alcuni anni, Turillo pianse ancora per un altro forte dolore, perché il padre
morì e rimase solo…!
L’anno seguente, ancora affranto da questa grave perdita, decise di abbattere l’albero. Pensava tra sè: “Che me ne faccio di quest’albero, che non produce mai un sorbo, ma apporta solo ombra al giardino sottostante, producendo tanto fogliame in autunno?!” Tuttavia non ebbe il coraggio di uccidere l’albero e così risolse: “Faccio trascorrere un altro anno e recido solamente qualche ramo inferiore dell’albero, e poi osservo cosa succede…”.
Nella primavera seguente, nel mentre l’albero emetteva i nuovi germogli e le foglie in abbondanza, Turillo ebbe ad osservare che tra i suoi rami c’erano alcuni fiocchi di colore bianco-rosa… molto belli! Non li aveva mai visti fino a quel momento, ma quelli erano i fiori dell’albero del Sorbo, che erano sbocciati per la prima volta!
Così in quell’anno Turillo poté gustare per la prima volta le sorbe  prodotte dall’albero figlio del Sorbo ucciso… Così avvenne negli anni seguenti, e sempre  in abbondanza!
Da allora decise di non uccidere più l’albero, ma di tenerlo sempre nel suo giardino, in ricordo della bella campagna, dell’albero vecchio e del padre che non c’erano più.

Questa è la storia dell’albero di Sorbo che non voleva morire, ma voleva vivere…! Gli alberi hanno un cuore e vogliono vivere sempre assieme agli uomini! Ma gli uomini sono sordi, non l’hanno capito ancora questo messaggio...!

Il racconto è finito qui, loro sono al di là, nel regno dei ricordi e noi qui, tra quello dei viventi!