sabato 30 gennaio 2021

Al car.mo amico e scrittore del libro "Piscinola, la terra del Salvatore", di Don S. Nappa

In occasione del decennale della pubblicazione e della presentazione del mio libro "Piscinola, la terra del Salvatore", ho deciso di rendere pubblica la bella lettera che mi ha fatto pervenire il carissimo monsignore don Salvatore Nappa, nella primavera del 2012. Oltre alle belle parole di apprezzamento per il mio lavoro, don Salvatore giustamente ha sottolineato che nel libro ci sono pochissimi riferimenti alla sua azione pastorale e sociale nella comunità piscinolese dell'immediato dopoguerra, come aiutante della Parrocchia del SS. Salvatore.
La lettera è una bellissima testimonianza che racconta uno spaccato di vita del quartiere, in un momento difficile che fu quello della fine della seconda guerra mondiale; ma nonostante le ristrettezze e le difficoltà economiche, la comunità, soprattutto i ragazzi e i giovani, seppero reagire, mostrando un forte senso di appartenenza e una gran voglia di riscatto, attraverso la cultura e lo sport. Ai due nostri Sacerdoti, D. Salvatore Nappa e D. Domenico Severino bisogna riconoscere e apprezzare la preziosa opera di guida alla formazione, non solo religiosa, ma anche culturale, sociale e sportiva, dei giovani di quel periodo.
In quanto al riconoscimento della sua personalità a Piscinola, come promesso, ho dedicato il secondo mio libro del Centenario della Piedimonte: "Comm'era bella la Piedimonte" nel 2014 a don Salvatore Nappa, facendogli dono della prima copia stampata, nel suo studio, nella canonica a Marianella.
Ecco il testo integrale della lettera ricevuta da mons. don Salvatore Nappa:

"Finalmente ti posso dire: ho letto tutto il tuo libro "Piscinola la terra del Salvatore", e mi compiaccio sinceramente con te, che non solo ci hai fatto conoscere tante belle cose del passato su Piscinola, ma ci hai confermato tante belle cose dei nostri tempi, che io e i miei contemporanei conosciamo. Quanto studio da parte tua, quanta pazienza, quante belle cose dei nostri contemporanei e specialmente dei nostri antenati.
Ci voleva proprio tu, con la tua pazienza, con il tuo studio, con la tua volontà e la tua capacità, e solo tu ci sei riuscito a portare a termine questo lavoro su Piscinola, perché altri ancora hanno cominciato ma solo superficialmente e dopo poco tempo hanno alzato le mani, tra gli altri ricordo "Monsignor Umberto Scandone", di Piscinola, ma Parroco a Porta Piccola, che scrisse però solo un opuscolo, che io ho letto, e che fece poco effetto, tu invece hai cominciato e superato tutte le difficoltà arrivando gloriosamente alla fine.
Una cosa sola ci hai mancato, che per me è molto importante, ma ti perdono, però solo a metà, perché tra me e te c'è una bella differenza di età e poi io non sono vissuto stabilmente a Piscinola, perché, per volontà dei miei superiori, due anni dopo la Consacrazione e cioè nel 1944, andai a dirigere altre Parrocchie e quindi me ne andai da Piscinola, però tu sapevi della mia presenza, perché una volta ci siamo incontrati, ma non ci siamo parlati, per esempio in quella che fu la sede, per poco tempo, "degli amici" a via Vittorio Veneto, dove mi portò mio nipote "Nappa Salvatore", e dove parlai di tutta la mia vita, ma non ci incontrammo e non parlammo.
Non ho mai saputo niente del lavoro su Piscinola che tu stavi facendo e solo dopo che l'hai presentato e c'era anche mio nipote Salvatore che me ne parlò e mi portò il tuo libro, che io ho letto, come ti ho detto, ed ho apprezzato moltissimo e non solo per le molte e belle notizie piuttosto recenti, ma soprattutto per quelle antichissime che nessuno conosceva.
E adesso, per quanto riguarda me e la mia presenza in Piscinola, devi sapere che io sono stato per una decina di anni e cioè dal 1935 al 1945 protagonista assoluto. Nel 1935, infatti avevo appena terminato la 5^ ginnasiale, con ottimi risultati, quando un padre di un ragazzo che io conoscevo, mi disse "Don Salvatore volete preparare mio figlio per la prima ginnasiale?" Si, risposi, ma con un po' di preoccupazione.
Per la verità, ci riuscii bene e, da quel momento, uno stuolo di ragazzi anche da Marianella e da Miano vennero da me per essere preparati agli esami di riparazione ad ottobre o per l'italiano, o per il latino, o per la matematica.
Diventai poi Sacerdote, oltre a continuare con la scuola ai ragazzi, mi interessai dei giovani dell'Azione Cattolica nel circolo di via Vittorio Emanuele. Erano quasi "200" i giovani ed i ragazzi che frequentavano alla sera, con mio sommo piacere, e che diedero inizio alla filodrammatica e alla recita del Rosario alla sera fino alla chiesetta della Madonna delle Grazie, e non mancava ogni settimana la riunione in sede per studiare il testo di cultura religiosa.
La novità avvenne quando verso la fine dell'anno 1943, vennero i soldati americani a Piscinola e pigliarono possesso dell'Edificio scolastico e dei locali del Municipio, dove misero, per poco tempo, il tavolo di Ping Pong e quindi alla sera, dopo la giornata di servizio, tutti a divertirsi attorno al tavolo.
La presenza dei soldati americani costituì per tutti noi, come è chiaro, non solo una novità, ma anche una grande curiosità per cui alla sera, io e alcuni altri ci avvicinavamo alla caserma e ci fermavamo al di fuori della sala ex teatro dove stava il tavolo ed eravamo curiosi di sentire il tic tac della pallina senza che qualcuno ce lo spiegasse. E solo dopo un po' di tempo, quando riuscimmo a sapere tutto da uno dei nostri ragazzi che era stato in collegio, decidemmo di cominciare a fare i primi passi necessari per mettere, nel nostro circolo, il Ping Pong.
E così una mattina, io, don Mimì (d. Domenico Severino, sacerdote) che stava sempre con me e altri due giovani, andammo a Napoli, a piedi s'intende, perché i ponti e di S. Rocco e di Miano erano stati abbattuti dai tedeschi. Io sapevo che al Museo, nei pressi di Piazza Dante, c'era un negozio di attrezzi sportivi, e senza perdere tempo andammo dentro e ci facemmo prendere tutto l'occorrente ma senza che ci fosse la volontà di comprarlo perché non tenevamo i soldi.
Così vedemmo tutto quello che ci voleva, ringraziammo il padrone del negozio, e andammo via. Ma per la via del ritorno subito tirammo le prime conclusioni, perché don Mimì si offrì a preparare la retina con lo spago che già aveva, a procurare la pallina perché conosceva un soldato americano e poi l'amico Scaglione Angelo, falegname si pigliò il compito di fare le racchette e di aggiustare il tavolo che già tenevamo e dopo che tutto fu pronto si cominciò a giocare. Ma quante risate, e quante volte la pallina cadeva a terra. Ma dopo pochi giorni le cose si misero a posto, prima, secondo le poche regole che ci aveva suggerito il nostro amico del collegio e, poi, con le regole giuste che ci avevano fatto conoscere alcuni soldati americani diventati nostri amici. Devo dire, per la verità, che col passare del tempo alcuni giovani divennero così bravi, che cominciarono a sfidare a livello regionale i giovani delle altre associazioni. Però quando io andai a fare il Parroco nella zona di Poggioreale portai con me il tavolo del Ping Pong e questo trattamento serale, piano piano finì completamente.
Quanto alla palla a canestro: per cominciare si dovette aspettare più tempo perché si dovette aggiustare la piazza avanti all'Edificio scolastico, modificare le lampade elettriche perché si doveva giocare alla sera e recintare il campo.  Fin dalle prime partite, io e don Mimì fummo presenti insieme ad un gruppo di giovani. E quando ci rendemmo edotti di questo nuovo sport, cominciammo a pensare come farlo anche noi, ed il luogo adatto era il cortile della sede dell'Azione Cattolica, accanto alla grossa pianta di fichi, lo allivellammo, lo illuminammo perché bisognava  giocare di sera e tutti d'accordo per cominciare si decise per la sera della vigilia del Santo Natale 1944.
Io guidavo una squadra e don Mimì l'altra, e ci mettemmo a giocare ma una pallonata andò a finire sopra i miei occhiali che caddero a terra e si ruppero e fu questo il battesimo della palla a canestro del Circolo Cattolico di Piscinola.
Nel mese di luglio 1945, io andai via da Piscinola e don Mimì prese l'impegno del Circolo e dei giovani e fondò la squadra "Virtus", che si è fatto e si sta facendo molto onore.

mons. Nappa Salvatore   
     

mercoledì 27 gennaio 2021

Lo cunto della Sòvera ca nun voleva morire…!

‘Nce steva, tantu tiempo fa, ‘na campagna, doce e gentile, cu llà vicino ‘na masseria antica…, ma antica assaje…! Per lo mmiez’’a nu Casale ‘e Napule, de’ chille antiche ‘e ‘na vota…
‘Sta campagna teneve tanti piante e àrbere, cierte vecchie assaje: 'Na pianta ‘e lauro, n’ata ‘e fico, po’ ‘na ceveze, tanta nucelle, e peré ‘e chiuppe, chille nire nire, ma ca facevano fungie ghianche e doce comm’‘o latte!
Mmiez’’a sta terra nce steva n’at’àrbero, curiuso assaje, pure isso assaje viecchio: teneva ‘na curteccia nera nera, tutta vacante dinto… Tutt’‘a gente ‘e ‘stu posto 'a chiammavano: Sòvera…!
Quant’anne tenarria, nisciune ‘o pùtarria sape’…; ‘e cchiù viecchie parzunale, ca tenevano cchiù ‘e ottant’anne, diceveno ca se ll’arricurdavano sempre accussì, sempe vecchia e scavata dinto, ‘a quanno erano state pure lloro guagliune…!
Miez’’a chella bella terra de ‘stu Casale, nce steva ‘nu guagliunciello peccerillo, ca se chiammave Turillo, ca era nato proprio dint’a chella masseria...
Turillo vuleva bene a tutte ‘e persone ca stavene ‘e case llà dinto e tutti vulevano pure bene ‘a Turillo…
‘O spasso ‘e stu guaglione era chillo ‘e sta’ tutt’o ghiorno sempe miez’'a ll'aria ‘e chella masseria. Turillo era bellillo,... curreve, curreve sempe, d’’a matina ‘a ssera, p’’e llemmate e p’’e sseparelle e ghieve pure ‘ncoppe ‘e bbinarie d’’o treno… Turillo tenevo sulo 'o pate, pecchè ‘a mamma era morta quann’era assaje peccerillo… E dint’’a chella massaria senteva tutt’‘o calore e ‘na famiglia…!
Turillo vuleve bene a ‘sta natura, a tutte ll’aucielle e pure a tutte l’arbere ‘e chella campagna.. E miez’'a chelle, po’, s’era ‘nnammurato 'e chella pianta vecchia ‘e Sòvera… Pecche’ 'a trattava comm’a ‘nu nonno viecchio! 
Dimandave spisso nutizie ô pate, e a ll’atre viecchie, ma pure chilli dicevano sulo che ‘a Sòvera era vecchia assaje… Dicevano ancora ca chisto era n’àrbero affatato, pecché se raccontava ca ‘ntiempo antico, llà ce ne stavano doje d’àrbere comm’’a cchisto, e ‘nu juorno, cierti cuntadini, scavanno ‘e ffuosse miez’’a esse pe’ semmenà ‘e perzeche, truvajene n’anfolla assaje gruossa e antica, ca llà sotto era ‘nterrata… e rumpennela pe’ vede’ che nce stava d’into, truvajene sulo ‘na pòvera gialla, comm’’a ccennèra. Tiempo doppo, se dicette ca chella pòvera, c’avevano pigliato p’’e ccennèra, ‘nvece era oro…, oro ffino…, ma chille però nun l’avevano capito e l’avevano ghittate, sparpaglianno tutto miez’’o turreno…!
L’anne passavano e ‘sta pianta faceva sempre pochi frutti, carevano sempe ambressa e nisciuno riusceva a fa’ ‘e piennule.
Quarcuno dint’a l’autunno raccoglieva pure ‘e foglie ‘a terra, pecchè dicevano che curavano cierti malatie d’'e viecche e d’'e giuvane…
Turillo, ogni tanto ca passava mmiez’’a chella terra, ‘o pensiero suojo era sempe chillo 'e ghi’ a vede’ 'sta pianta comma steva. Era po’ sempe curiuso ‘e guardà dint’’a "scafongia", se ‘nce steva quarcosa annascuso…, ma niente, quacche vota però n’asceva ‘na lucertolella…
Sta pianta, pure se era sturpiata p’’a vvicchiaja, puteva campà ancora pe’ tanta secule; era accussì attaccata ‘a vita, ca pure se teneva meza curteccia cunsumata, cu ‘o vacante mmiezo, era viva e campava sulo cu ‘nu parme ‘e scorza ‘e lato, ma pe’ chillu tanto ca bastava pe’ purta’ nutrimento ‘a cimma soja ‘e ncoppa!
Turillo ‘nu ghiorno, pensanno ca ‘o viento o ‘na tempesta putesse schiantare ‘a pianta, ‘nce attaccaje ‘nu tirante d’‘e acciaro, pe’ ‘a tene’ tirata e ferma, ‘o lato d’’o punto debole…
E accussì facenne se sentiva cchiù sicuro.., ma ‘stu guaglione, ca s’era fatto già grussiciello, nun aveva fatto ‘o cunto ca ‘o nemico ‘e sta pianta era ‘e n’ata specie: nun erano tempeste e sfuriate ‘e viento, ma era chillu “male” ca se chiamma “prugresso”: nu “male” brutto e ‘ncurabile assaje, ca se magna ‘e campagne, cu ‘e sciure e cu ll’àrbere e porta sulo distruzione e malaciorta addo isso passa!
‘O Guaglione, mentre cresceva, accuminciava ‘a sentere sta minaccia avvicinarse sempe ‘e cchiu’, pecché, comme careno è bombe dint’a ‘na guerra, sempe cchiù vicine, propritamente accussì ‘o rummore ‘e 'stà minaccia s’avvicinava sempe ‘e cchiu’…!
Turillo accuminciava a pensa’ ca era già tutto già destinato e che ‘sta pianta ‘e Sòvera eva murì priesto, nzieme ‘a terra soja...!
‘Nu ghiorno ‘sta pianta seculare, ca era stata sempe ‘o stesso e nun aveva mai fatte rampule nuovi, cacciaje ‘nu figliulillo ‘e latte ‘a dint’’e radeche…

....Ll’omme nun sanne, ca ‘e piante teneno ‘nu core e arragionano meglio ‘e lloro, e esse sanno pure ‘ntiempo quann’è arrivata ‘a fine loro…!!

Turillo rimmanette senza parole pe’ sta nuvità, ne parlaje cu ‘o pate, e accussì decidette 'e farlo crescere pe’ n’at'anno, fino a vierno.
‘O guaglione aveva capito ‘o messaggio ca ll’aveva mannato ‘a pianta ‘e Sòvera: ‘A pianta vuleva cuntinua’ a campà, e sapenno ca nun era possibile pe’ essa stessa, aveva pensato ‘e lascià ‘nu figlio suojo, ‘a fa’ crescere ‘a Turillo!
Accussi dint’’a vierno ‘o guaglione sceppaje ‘stu frustillo, ca era fino fino, duppio quanne a ‘nu retillo d''a mano, e sotto a isso teneva ‘nu capillo pe’ radechèlla… Turillo, senza ‘nce penza’ ‘ncoppa, atterraje ‘sta mazzarella d’into ‘o ciardino ca teneva vicino ‘a casa; dint’a chillo ca era ‘o posto cchiù sicuro e arreparato... 
Dint’’a primmavera appriesso ‘sta mazzarella ‘e Sòvera, cacciaje pochi buttune ‘e foglie…
Ma doppo n’anno ‘e vita, se seccaje ‘a cimma. Turillo pensaie subbeto che era morta…! Po’ dicette: "nun ‘a scippo ancora, mo ‘a pòta e vedimmo che succère…"
E, infatti, tenette raggione, pecché dint’a chella pprimmavera ca venette appriesso, ‘sta pianticella se vestette n’ata vota ‘e ffronne, e accumenciaje a crescere chianu chianu.
Passajene n’atu pare d’anne, e chillu presentimento c’aveva tenuto ’a pianta ‘e Sòvera, s’appresentaje senza piatà...!
S'appresentaje ‘nu mostro, cu “pale meccaniche”, “ruspe” e “motoseghe”, e tutt’‘a putenza e ’a malignità ca l’ommo caccia, cu 'a scusa d’’o prugresso e d’’o benessere ‘e l’atre…! E accussì ghittaje ‘nterra, ‘mbaranza, tutte l’àrbere ‘e chella bella campagna…, accerennole!!
Turillo nun vulette abbanduna’ l’àrbere suojo mentre carevano muorte, comme fa ‘nu figlio vicino ‘o llietto ‘e ‘nu pate o ‘na mamma ca ‘sta murenne... E vedenn’‘a piante soja ‘e Sòvera ‘nterra senza vita, chiagneva, chiagneva disperato, chiagneva comm’’a ‘nu criaturiello…!!
Turillo s’era fatto grusso, e ll’àrbero ‘e Sòvera (figlio) era crisciuto e s’era fatto sempe cchiù gruosso. L’anne passavano e ‘sta pianta cresceva sulamente, ma nun faceva maje ‘nu sciore, mai ‘na Sòvera…
Addivinataje n’àrbero assaje gruosso!
Turillo parlava spisso cu ‘o pate e ‘sta cosa strana, e lo diceva:… “Pa’, ma forse è servatica ‘sta pianta, visto ca nun fa' maje Sòvere?” E po’: “Pure se l’avessa ‘nzertà, add’’a piglio n’ata Sòvera? Cca attuorno, oramaje, campagne nun nce stanno cchiù… !?
Responneva ‘o pate: ”Turì, tu nun ‘o saje, pecché sì giovane, ma l’àrbero ‘e Sòvera, pe’ caccià ‘e Sòvere, s’adda fa' viecchio, ma viecchio assaje…, si no’ è Sòvere nun è fa' maje…!!
Doppo quarche anno, Turillo chiagnette n’ata vota, pe’ n’ato dulore forte assaje, pecchè ‘o pate murette e ‘o lasciaje a isso sulo…!
Ancora affranto p’’o dispiacere avuto, ‘o ggiovane l’anno appriesso pensaje ‘e taglià ‘a pianta. Diceva: “Ma ca me serve ‘sta pianta ca nun fa Sòvere, ma fa' sulamente ombra e, po’, ‘nu sacco ‘e fronne…?!”. Pero’ nun tenette ‘o curaggio d’’o fa'...! Allora pensaje: “Mo faccio passà n’at’anno ‘e tiempo, taglio sulamente quarche rampulo ‘e vascio, e vedimmo ca succère...
Dint’’a chella primmavera, mentre ‘a pianta cacciava ‘e fronne nove, n’abbondanza n’ata vota, Turillo vedette ‘na cosa strana dint’'e rampule: ‘nce stavano llà ‘ncoppo cierte pampuglie ‘e ‘nu culore ghianco e rrosa… ma belle assaje!!
Turillo nun l’aveva maje viste fino ‘a tanno, ma chille erano ‘e sciure d’’a Sorvera, ca erano schiuppate p’’a primma vota!
E accussì chill’anno Turillo magnaje p’‘a primma vota ‘e Sòvere nove ‘e l’àrbero figlio d’’a Sòvera accisa... E accussì, ogn’anno, ‘n'abbondanza…! 
Da tanno, decidette ‘e nun taglià cchiù l’àrbero, ma d’’o tenè pe’ sempe, pe’ ricordo: d’'a terra, d’'a Sòvera vecchia e d’’o pate, ca nun ce stavano cchiù!
 
Chestà ‘e a storia d’a pianta ‘e Sòvera ca nun vuleva murì, ma vuleva campà…!
Ll’àrbere tenene ‘nu core e vonno campa’ pe’ sempe cu ll’ommo! Ll’ommo ‘e surdo e chistu messaggio nun l’ha capito ancora!
 
O’ cunto è furnuto, loro stanno lla’ e nuje stamme cca!
Salvatore Fioretto
 
Il "Cunto" è stato liberamente tratto da una storia realmente accaduta. Tutti i diritti di pubblicazione sono riservati all'autore.
 
 (Segue la traduzione in Italiano)
 
Traduzione:

Il racconto del Sorbo che non voleva morire…!

C’era una volta, tanto tempo fa, una campagna dolce e gentile, e vicino ad essa un’antica fattoria, ma molto antica. Essa era posta nel centro di un borgo di Napoli (Piscinola), tra quelli più antichi …
Questa campagna aveva molte piante e alberi, alcune molto vecchie: un albero di alloro, un altro di fico, un gelso, molti noccioli e pioppi, di quelli con la corteccia nera, che producevano dei funghi bianchi, dolci come il latte!
Al centro di questa campagna c’era un albero, molto curioso, anch'esso molto vecchio: aveva un tronco con la corteccia nera, ma vuoto al suo interno… Tutti gli abitanti del luogo chiamavano quest’albero “Sovera” (Sorbo)…!
Quanti anni avesse quest’albero nessuno poteva saperlo… infatti i
contadini più anziani, che avevano oltre ottant’anni, ricordavano quest'albero immutato, fino dagli anni della loro infanzia: si era mantenuto immutato nel tempo, sempre così vecchio e vuoto dentro…!
Nella bella campagna di questo Borgo viveva un ragazzetto, che si chiamava Turillo (Salvatore), nato proprio in questo tenimento agricolo…Turillo voleva molto bene a tutte le persone che abitavano in quel luogo ed esse ricambiavano l’affetto per Turillo…
Tra i divertimenti di questo ragazzo c'era quello di trascorrere intere giornate a giocare nell’aia di quella fattoria.
Turillo era un bambino carino, piaceva giocare e correre, dalla mattina alla sera e, poi, attraversare i sentieri e gli anfratti esistenti nella campagna; soleva anche camminare sulle rotaie della ferrovia che stava lì vicino…
Turillo aveva solo il padre, perché la madre morì quando era ancora piccolo… Egli però percepiva in quella fattoria tutto il calore di una famiglia vera…!
Turillo voleva molto bene alla natura, a tutti gli uccelli e anche a tutti gli alberi di quella campagna… Tra quelli, poi, s’era innamorato del vecchio albero di Sorbo… Lo considerava alla stregua di un vecchio nonno!
Chiedeva sempre sue notizie al padre e agli altri anziani del Borgo, ma questi dicevano solo che l’albero era assai vecchio… Dicevano, ancora, che questo era un albero magico e che in antico tempo in quel luogo c’erano due alberi di Sorbo uguali. Un giorno alcuni contadini, scavando
tra di essi alcune buche,  rinvennero un’anfora interrata. La ruppero, per osservarne il contenuto, ma trovarono al suo interno solo della polvere gialla, come la cenere. Tempo dopo, si disse che quella polvere, che questi avevano scambiato per cenere, era invece oro, ma oro fino… ma essi non avevano compreso e l’avevano cosparsa nei dintorni…!
Trascorrevano gli anni e quest’albero fruttificava poco; quei pochi frutti prodotti cadevano presto al suolo e non si riusciva a raccoglierli in mazzetti. Alcuni contadini usavano raccogliere anche le foglie caduche, perché le ritenevano utili per curare alcune malattie di persone anziane e di giovani…
Turillo, quando attraversava la campagna, era attratto sempre da quest’albero e piaceva osservarlo per costatare lo stato vegetativo. Sovente, era incuriosito a scrutare la cavità interna, sperando di scoprire qualche oggetto nascosto… ma non trovava mai niente; a volte però da essa
usciva una piccola lucertola…
Quest’albero, anche se era "acciaccato" dalla vecchiaia, poteva sopravvivere ancora per molti secoli; era così pieno di vita, pur presentando un’ampia sezione di corteccia rinsecchita e solo una parte viva, che, benchè piccola, era sufficiente e bastava ad apportare il nutrimento alla chioma!
Un giorno, temendo che il vento forte potesse spezzare l’albero, applicò un tirante d’acciaio che lo tenesse stabile e sorretto nel lato del suo punto debole. Così facendo si sentiva sicuro…; ma questo ragazzo, che ormai era cresciuto e diventato giovanotto, non aveva considerato che il nemico di quest’albero era di un'altra specie: non erano temporali e vento forte, ma quel male che si chiama “progresso”: un male molto brutto e invincibile, che divora campagne, con alberi e fiori contenuti e porta soltanto distruzione e maledizione dove esso attraversa!
Questo giovane, mentre cresceva, iniziava a percepire questa minaccia avvicinarsi sempre di più: perché, come cadono le bombe durante una guerra, avvicinandosi col rumore sempre di più, similmente la percezione del sopraggiungere di questo nemico si faceva in Turillo sempre più forte e vicina!
Turillo iniziò a rassegnarsi, pensando che era tutto destinato e  che questo Sorbo doveva morire presto, assieme alla sua bella campagna…!
Un giorno, quest’albero secolare, che restava immutato da decenni, e non aveva mai fatto nuovi rami, generò un piccolo germoglio alla sua base, appena sotto il terreno…

… L’uomini non sanno, che gli alberi hanno un cuore e ragionano meglio di loro, esse sanno pure quando arriva la loro fine…!!

Turillo rimase sbalordito per questa novità, e riferì l'accaduto al genitore, mentre decise di farlo crescere un altro anno, fino al successivo inverno.

...Il ragazzo aveva inteso il messaggio affidatogli dall’albero di Sorbo: la pianta voleva continuare a vivere, ma presagendo che era impossibile, aveva pensato di lasciare un suo “figlio”, da affidare alle cure di Turillo!

Quando si ripresentò l’inverno, il ragazzo estirpò la piantina, che aveva un fusto sottilissimo, spesso quanto a un dito della mano, e presentava una piccola radichetta, sottile come un pelo….
Turillo, senza pensarci su due volte, piantò il virgulto nel giardino che aveva vicino alla sua casa, nel posto più sicuro e riparato dalle future distruzioni…
Nella primavera successiva questo piccolo Sorbo emise le prime gemme e poi le foglie… Ma, dopo un anno di vita, si seccò la chioma. Turillo pensò subito che l'alberello fosse morto…! Poi risolse: “Non l’estirpo ancora, adesso eseguo una potatura e vediamo cosa succede…”. Infatti ebbe ragione, perché nella successiva primavera la piantina si rivestì di foglie e iniziò a crescere lentamente.
Trascorsero alcuni anni e quel presentimento, che Turillo aveva avuto e temuto, si fece realtà e si presentò senza pietà…!
Il “mostro” si materializzò con pale meccaniche, ruspe e motoseghe, con tutta la potenza e la malignità che gli uomini manifestano con il pretesto del progresso, del benessere e del bene comune…! E così furono recisi tutti gli alberi di quella bella campagna, uccidendoli tutti per sempre!
Turillo in quel tragico evento non volle abbandonare i suoi alberi, mentre cadevano morti, così come si comporta un figlio presso il letto di un padre o una madre moribondi…! Osservando l’albero di Sorbo adagiato sul terreno, privo di vita, piangeva disperato, piangeva come un bambino…!!
Turillo era diventato ormai adulto e il nuovo albero di Sorbo (figlio di quello vecchio) era cresciuto e divento grande. Trascorrevano ancora gli anni e quest’albero cresceva soltanto, ma non produceva mai fiori e, quindi, mai frutti…! Divenne un albero poderoso!
Turillo interrogava a tal proposito il padre, dicendo: “Papà,
visto che l'albero non fruttifica, sarà forse selvatico? E poi: “Semmai lo dovessi innestare, dove potrei trovare le marze della specie originale? Qui attorno le campagne sono ormai scomparse..!
Rispondeva il padre: “Tu non lo sai, perché sei giovane, ma l’albero di Sorbo per fare i frutti deve diventare grande e adulto, altrimenti le sorbe non le produce…; ci vorranno ancora degli anni...!!”.
Dopo alcuni anni, Turillo pianse ancora per un altro forte dolore, perché il padre
morì e rimase solo…!
L’anno seguente, ancora affranto da questa grave perdita, decise di abbattere l’albero. Pensava tra sè: “Che me ne faccio di quest’albero, che non produce mai un sorbo, ma apporta solo ombra al giardino sottostante, producendo tanto fogliame in autunno?!” Tuttavia non ebbe il coraggio di uccidere l’albero e così risolse: “Faccio trascorrere un altro anno e recido solamente qualche ramo inferiore dell’albero, e poi osservo cosa succede…”.
Nella primavera seguente, nel mentre l’albero emetteva i nuovi germogli e le foglie in abbondanza, Turillo ebbe ad osservare che tra i suoi rami c’erano alcuni fiocchi di colore bianco-rosa… molto belli! Non li aveva mai visti fino a quel momento, ma quelli erano i fiori dell’albero del Sorbo, che erano sbocciati per la prima volta!
Così in quell’anno Turillo poté gustare per la prima volta le sorbe  prodotte dall’albero figlio del Sorbo ucciso… Così avvenne negli anni seguenti, e sempre  in abbondanza!
Da allora decise di non uccidere più l’albero, ma di tenerlo sempre nel suo giardino, in ricordo della bella campagna, dell’albero vecchio e del padre che non c’erano più.

Questa è la storia dell’albero di Sorbo che non voleva morire, ma voleva vivere…! Gli alberi hanno un cuore e vogliono vivere sempre assieme agli uomini! Ma gli uomini sono sordi, non l’hanno capito ancora questo messaggio...!

Il racconto è finito qui, loro sono al di là, nel regno dei ricordi e noi qui, tra quello dei viventi!

sabato 23 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: le Masserie (seconda parte)

Per descrivere una masseria che sia rappresentativa di tutte quelle che un tempo esistevano nel territorio, ne ricorderemo una che è sopravvissuta fino ai primi mesi del 2002, la masseria “Torre Gualtieri” nel tenimento chiamato "Marchesa di Rutigliano" situata a Piscinola, nell'antica via omonima, oggi via Vecchia Miano.

Veduta della masseria Torre Gualtieri e campagna del suo tenimento Marchesa di Rutigliano, 1995

L’ubicazione

Questa masseria, sicuramente risalente al XVII secolo, riportata nelle mappe e nei documenti più antichi, era situata in Via Vecchia Miano (abbascio Miano). Essa faceva parte di un esteso fondo agricolo che era denominato “Tenimento Marchesa di Rutigliano” (o Rovigliano). Forse per tale motivo la Via Vecchia Miano, nel tratto in questione, un tempo era denominata “Via Rovigliano”.
Questo complesso architettonico costituiva, come si evidenzia nelle mappe, l’unica opera ubicata al di fuori del perimetro dell’edificato storico di Piscinola, ossia l’edificato compreso tra Via Pagliano (Vico degli Operai) e Via Vecchia Miano.

Foto in una masseria di Piscinola, di Giovanni De Stefano

La struttura architettonica e gli spazi esterni
La masseria “Torre Gualtieri” aveva una poderosa struttura difensiva, infatti era dotata di una cortina di mura molto alta e aveva l’ingresso molto caratteristico, perché anch’esso di tipo fortificato, con un massiccio portone di legno a due battenti, incastonato in uno dei due enormi archi a tutto sesto ivi presenti.
La struttura d’ingresso rappresentava la parte più alta e monolitica del complesso architettonico, quasi a simboleggiare una specie di torre d’avvistamento e di difesa. Ad essa si accedeva direttamente dalla strada, attraverso una breve rampa che raggiungeva un terrapieno in tufo alquanto alto.
Notiamo nel territorio circostante Piscinola altre strutture simili alla nostra, come la masseria di S. Giovanni, nella quale è presente una struttura d’ingresso anch’essa a forma di torre, con un portale altissimo a sesto acuto e con due belle volte “a crociera”. Altro esempio è la masseria “Torricelli” di Mugnano, costruita attorno ad un mausoleo cinerario romano a forma di torre, da cui deriva sicuramente il suo nome.
La struttura architettonica della masseria “Torre Gualtieri” appariva alquanto disomogenea, per i diversi volumi degli edifici che la componevano. Alcuni di essi si mostravano come aggiunti un po’ alla rinfusa al “corpo” centrale d’ingresso.
Il resto dei fabbricati erano disposti “a corte”, attorno ad uno spazio centrale, chiamato “aire” e comprendeva una serie di servizi comuni, tra i quali: il bagno, il forno, il pozzo, una o più stalle per il bestiame e il relativo fienile, chiamato “mezzaniello”.
La masseria, poi, aveva diversi giardini (con alberi di fichi, legnasante (cachi), limoni ed aranci) e le attrezzature utilizzate per la pulizia e per il confezionamento delle noci e per la produzione del vino.

Masseria Torre Gualtieri, arco d'ingresso fortificato, via V. Miano, 2000

L’utilizzo degli ambienti coperti
Le stalle erano in muratura e suddivise in varie zone. La parte destinata agli equini (asini, muli e cavalli) era più angusta, perché meno frequentata, mentre quella destinata alle mucche ed agli ovini era più ampia, per permettere la relativa mungitura.
Il maiale era allevato all’interno di recinti coperti, non necessariamante dentro le stalle.
Lo sterco degli animali (strame) era raccolto nelle stalle e trasportato nei campi, mediante carri, detti “carrette” o “riroti”, trainati da muli o cavalli.
Il vino era contenuto in botti, sistemate all’interno di locali sotterranei abbastanza profondi e bui (‘e rotte). Vicino al locale chiamato “basso” (vascio), era presente, poi, un grosso locale chiuso, tipo deposito, destinato ad immagazzinare i prodotti della campagna, prima che venissero trasportati al mercato.

Le abitazioni dei contadini
Le abitazioni si componevano di locali disposti su due livelli.
Il “basso” (vascio) si componeva di una grossa camera, posta al piano terra, corredata di un camino “a campana”, da un lato e da un piccolo locale interno destinato alla cucina. Nella cucina i fornelli erano realizzati in muratura e acciaio e venivano alimentati con legna: quasi sempre avanzi di potatura. Le pentole grandi (caurare) erano collocate in un foro circolare, realizzato dentro il piano di pietra. Questo foro formava, attraverso un cerchio di ferro battuto, una sorta di incastro per la pentola. Le pentole piccole e le padelle si appoggiavano, invece, sopra a dei piatti di acciaio, realizzati mediante anelli concentrici, di ferro battuto, che si incastravano uno dentro l’altro. Sotto queste strutture erano presenti delle camerette, nelle quali si introduceva la legna e si poteva “soffiare” sul fuoco, con un apposito ventaglio composto da vimini e varie fibre.

Interno Masseria, vista dell'"Aire" e pietra per lavorare il lino, 1971
Ad una parete della cucina era collocata una rastrelliera in legno, sopra la quale veniva “esposto” tutto il pentolame di rame, portato in dote dalle donne.

I mobili erano pochi, di manifattura semplice, composti per il “basso” da una credenza o “cristalliera”, utilizzate per il contenimento delle suppellettili, da una grossa tavola in legno e da alcune sedie impagliate; mentre nella camera del piano superiore c’era un armadio, un letto con spalliere in ottone o ferro e un comò del tipo “segreter”.
I materassi erano realizzati con sacchi di canapa riempiti di “stuglie” di granoturco. Le stuglie venivano cambiate ogni anno.
Il bagno era minuscolo, spesso pensile, come in questo esempio, ricavato “a sbalzo” sul corpo di fabbrica, mentre, era consueto che si utilizzassero vasi da notte o pitali, che durante il giorno erano conservati nei comodini ai lati del letto.
Il riscaldamento degli ambienti della “zona giorno” era molto semplice e consisteva nell’accendere il fuoco nel camino. Nelle strutture più antiche il camino era costruito rigorosamente a forma di campana e nel suo interno conteneva due sedili di pietra contrapposti, che permettevano a due persone di sedersi e dialogare.

    Masseria Torre Gualtieri, dalla campagna del suo tenimento, 1995

Negli ambienti dove non si disponeva del camino, si utilizzava un braciere di rame, bruciando della carbonella (vrasiero cu’ ‘e gravunelle). Il braciere si collocava su un supporto di legno o di ferro, sul quale si potevano appoggiare i piedi. Per “attizzare” il carbone si disponeva anche di una palettina in rame o di ferro.

Nelle camere da letto (‘a cammera) si usava lo “scarfalietto”, ossia una sorta di padella in rame, nel quale si poneva del carbone acceso. Lo “scarfalietto” era posizionato sotto le coperte prima di andare a dormire, dentro ad un distanziatore chiamato “monaco”. Quest’ultimo era una sorta di navicella realizzata in doghe di legno e serviva ad alzare le coperte, per non farle stare in contatto con le pareti roventi dello “scarfalietto”. D’inverno gli indumenti e gli altri panni erano messi ad asciugare sopra il braciere, utilizzando una specie di cupola, fatta anch’essa di listelli di legno; mentre durante le giornate assolate gli indumenti venivano esposti (spasi) al sole, nell’”aire”.

   Masseria Torre Gualtieri dalla campagna del suo tenimento, 2000

I momenti di vita comune
I momenti di aggregazione nelle masserie coincidevano con l’utilizzo delle strutture comuni, come il pozzo, il forno e l’aire.
Il forno era adoperato durante i fine settimana, per la cottura del pane e durante le feste dell’anno, per la cottura di dolci e dei piatti rustici locali.

Altro momento di unione degli abitanti della masseria era la lavorazione del granoturco che avveniva a fine estate. Anziani, giovani, donne e bambini la sera si disponevano a formare un grande cerchio, intorno a covoni di mais e procedevano, dapprima, all’asportazione delle “stuglie” esterne delle spighe e, poi, all’asportazione dei chicchi, aiutandosi con utensili appuntiti (chiamati spuntoni).
L’evento era accompagnato dal racconto di aneddoti e ricordi da parte degli anziani. Le pannocchie migliori (‘e spighe ‘e graurine) venivano selezionate per la semina dell’anno successivo ed erano conservate sotto gli androni o volte, appese a forma di grappoli, insieme a “pennoli” di pomodori, sorbe (sovere), cachi (legnasante) e meloni (mullune ‘e pane).

   Scorcio della Masseria vista dalla stradina detta "Carrara", 2000

L’”aria” (detta anche aire) era utilizzata per eseguire l’essiccazione delle derrate agricole prodotte nella campagna. Essa veniva anche utilizzata per bacchiare i cereali ed i legumi e, ancora, per svolgere le attività domestiche e ludiche. Di questo spazio e delle lavorazioni che in esso si eseguivano, daremo un’ampia descrizione nei post futuri.
Negli spazi aperti della masseria era solito assistere al razzolare del pollame, insieme ad anatre ed oche. Spesso, come in primavera, le chiocce portavano in giro i pulcini appena nati.
Il pozzo non era altro che una grossa cisterna interrata in tufo, destinata al contenimento dell’acqua piovana raccolta dai tetti degli edifici, convogliata in esso attraverso una serie di canalizzazioni. L’acqua veniva poi prelevata mediante un secchio legato ad una corda di canapa, attraverso un “mulinello” in legno (Tròciola). L’acqua raccolta dal pozzo era riservato agli usi domestici e per abbeverare il bestiame.
Altra struttura comune era una grossa pietra vesuviana che era presente al centro della masseria. Questa era una grossa pietra lavica, con la superficie a vista ben levigata e veniva utilizzata dalle donne e dalle ragazze per la lavorazione del lino occorrente per realizzare la dote per le nozze.

Una giornata trascorsa in masseria…
Come è logico pensare, la vita nella masseria si svolgeva nel corso della giornata in ambienti diversi, con l’interessamento anche delle campagne ad essa collegate. Durante il giorno, si frequentavano i locali e le zone, poste ai piani bassi della masseria (‘o vascio), mentre, di notte, si era soliti abitare nelle camere poste ai piani superiori (‘a cammera). La sveglia per tutti gli abitanti era fissata di buon mattino, al primo canto del gallo, ossia intorno alle quattro. Occorreva per prima cosa mungere le mucche e, poi, a seguire, pulire e governare tutti gli altri animali presenti nella stalla. 

Masseria Torre Gualtieri, dal lato della via V. Miano a Piscinola, 2000

Alle prime luci dell’alba gli uomini si recavano nei campi per eseguire le attività agricole, mentre le donne si dedicavano alla cura della casa e alla preparazione del pranzo. Intorno a mezzogiorno si faceva un pranzo frugale, consumato sul posto di lavoro.
Le donne trasportavano in grosse zuppiere avvolte in un panno, detto “muccaturo”, un unico pasto destinato ad alimentare tutti gli addetti ai lavori. Il vino, naturalmente, durante e dopo il pasto non doveva mancare mai ed era trasportato in “mummare” di terracotta o in fiaschi impagliati. Non si faceva uso di bicchieri.
Si continuava poi a lavorare fino all’imbrunirne. Le donne preparavano la cena e si dedicavano alle attività secondarie, come al ricamo, oppure alla preparazione delle conserve. Quando gli uomini ritornavano dai campi, si eseguiva la seconda mungitura delle mucche e si governava di nuovo gli animali con fieno e graniglie varie.
Al termine dei lavori, i contadini rincasavano nei “bassi” e si sedevano accanto ai focolari aspettando la cena. La cena era costituita quasi sempre da minestre, oppure da ortaggi vari, cucinati in maniera semplice, posti in un’unica zuppiera ed “esposta” alle posate di tutti i familiari. Al termine del pasto, i vecchi raccontavano alcuni racconti ai bambini seduti attorno al focolare scoppiettante e si andava presto a dormire.

Foto di famiglia nella masseria "Renza 'e Vascio", foto di Ferdinando Kaiser

Le unità di misura adoperate nella società agricola di un tempo
Le unità di misura adoperate nel mondo rurale hanno origini antichissime e variavano sensibilmente in rapporto al territorio. Citiamo quelle più utilizzate nella nostra zona e, quindi, nel nostro esempio citato:
Misure di superfici:
1 moggio (aversano) detto “mojo”     3.364 m2, ossia 0,3364 ettari
1 “quarta di terra”                               336 m2
Misure di capacità:
1 “tummolo"    (misura di granaglie) 0,54 ettolitri, ossia 54  kg ca.
1 “votta”                                             500 litri circa
1 “mezza votta”                                  250 litri circa
1 “carrato”                                          308 litri circa
1 “varrile”                                           44 litri circa
1 “carratiello”                                      35 litri circa
1 “quartarulo”                                     11 litri circa.

Foto dei ruderi della Masseria, in fase di demolizione, marzo 2002

Purtroppo l’antica masseria “Torre Gualtieri” nel tenimento "Marchesa di Rutigliano" di Piscinola, è stata miserevolmente abbattuta nella primavera del 2002, per far posto ad un “piccolo e oscurato” giardino pubblico, ancora senza nome, progettato e realizzato nell’ambito del “programma di ricostruzione del dopo terremoto”.

Forse l'utilizzo dell'antica struttura poteva essere più utile per la comunità e soprattutto più nobile per la sua storia, se finalizzato alla conservazione e alla realizzazione di un "Museo stabile della tradizione contadina del territorio", come è stato fatto a San Pietro a Patierno nella "Masseria Luce", oppure come si propose nella mostra estemporanea dell'anno 2004, di realizzare un "Museo del ricordo di Piscinola-Marianella". 
Masseria Torre Gualtieri nella mappa dell''800 di Piscinola
Purtroppo questo progetto, tutt'oggi, è stato sempre trascurato e disatteso da parte di tutti...

Il contenuto del presente post è stato completamente tratto dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore. Una terra, la sua gente, le sue tradizione", di S. Fioretto, ed. The Boopen, 2010.

Per questioni di spazio del blog, seguirà una "terza parte" del post, con il continuo dell'elenco delle masserie esistenti nel territorio e tante altre foto.
Salvatore Fioretto

 

Bozzetto allegorico di Piscinola, composizione grafica di S. Fioretto