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Dipinto nella casa di Marianella, Francesco de Geronimo predice il futuro Santo |
Il
primogenito di don Giuseppe de Liguori: Alfonso Maria (la sfilza dei nomi di battesimo erano:
Alfonso, Maria, Francesco, Antonio, Giovanni, Cosimo, Damiano,
Michelangelo, Gasparre, nacque nel casino di campagna di Marianella, il 27 settembre 1696), trascorse la sua
infanzia tra il quartiere popolare dei Vergini, dove i Liguori avevano la loro
nobile dimora cittadina e il casino di Marianella, tra gli studi e le lezioni impartite
da autorevoli precettori e i pochi momenti di svago trascorsi assieme ai suoi coetanei. Cresceva benissimo e gli anni della sua
crescita passarono con un ritmo frenetico, tanto da ritrovarlo diventato presto
un aitante cavaliere, dai modi gentili, raffinati, galanti e soprattutto molto
acculturato...
Chi lo conosceva bene, poteva ammirare, non senza stupore, il
suo genio precoce, che spaziava tra la conoscenza delle scienze e le più nobili arti:
dall'astronomia, alle lingue antiche e moderne (toscano, latino, greco,
francese e spagnolo), dalla filosofia, alla musica (suonava a perfezione il
clavicembalo), dalla pittura (degno allievo del grande Solimena, dipingeva
soggetti realistici), all’architettura (progettò la chiesa di Pagani), dalla scherma all’equitazione; insomma, come si suole dire oggi, era l’immagine della
perfezione in persona, ed aveva, poi, il privilegio di essere il primogenito di una grande famiglia,
nobile e ricca, a cui spettava di diritto tutta l'eredità del casato e un posto in un Sedile del
governo della città (Alfonso e il padre Giuseppe appartenevano al Sedile dei nobili di
Portanova).
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Stemma nobiliare della famiglia Liguori |
Alfonso
aveva una costituzione e un fisico armonioso, amava svagarsi nel gioco assieme ai
suoi coetanei, ma senza eccedere, e senza lasciarsi mai andare a
comportamenti irriverenti e superficiali. Fin da fanciullo, non si era fatto
ammaliare dalle vanità del mondo..., non faceva mai sfoggio del suo sapere con
gli altri, aveva invece un cuore grandissimo e nobile; già prima della sua
conversione, passava gran parte del suo tempo libero ad assistere gli ammalati poveri
nell'ospedale degli Incurabili, ad adorare il Sacramento esposto nelle Chiese,
durante le "quarantore", a fare fioretti, recitare esercizi spirituali e
orazioni, maggiormente rivolte alla Madonna, verso la quale Egli riservava una
predilezione devozionale. Ancora ragazzo aveva fatto un voto solenne, quello di
non perdere mai tempo in vita sua!
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Castel Capuano in un dipinto (particolare) |
Varcata
la soglia dei vent'anni, Alfonso profondeva tutte le sue energie nella
professione di avvocato. Era stato un ragazzo prodigio, capace di laurearsi
prestissimo nei due Diritti (Laurea in Utroque
Iure); conseguì infatti il titolo accademico ad appena diciassette anni (nel 1713), ben tre
anni prima di quanto previsto dalla prammatica
dell'epoca (che imponeva almeno 20 anni) e, pertanto, fu necessaria una dispensa reale. Si
approcciò all'arte forense, praticando nello studio del presidente del tribunale, Domenico Caravita, suo insegnante, che divenne anche suo amico, e, come vedremo, anche un
attore involontario della sua conversione...! La sua carriera di avvocato
divenne presto galoppante ed inarrestabile; cresceva a ritmo vertiginoso...!
In
tutta Napoli e dintorni si era subito diffusa la sua fama di brillante
avvocato... In soli sette anni di esercizio legale, ricevette un gran numero di
cause da patrocinare, e le vinceva tutte! Una dietro l'altra...!! Un portento!
Tutti conoscevano la grandezza di questo giovane rampollo dei cavalieri
Liguori, che per i suoi successi aveva dato una lezione di stile ai tanti
avvocati veterani del Regno, tanto da essere già considerato, nonostante la
giovanissima età, un "Principe" del Foro di Napoli. Ma l'effimera giustizia degli uomini non tardò a colpirlo...!
A soli 26 anni (nel 1723), gli
capitò un’occasione straordinaria per la sua carriera forense, fu chiamato a
difendere gli interessi della nobile famiglia napoletana degli Orsini, duchi di
Gravina, in una causa intenta contro la famiglia dei Medici, Duchi di Toscana,
riguardante la rendita di un feudo abruzzese, quello di Amatrice.
I due attori
erano Filippo Orsini duca di Gravina e il granduca di Toscana, Cosimo III dei
Medici. Gli interessi in gioco erano ingenti, ammontavano a circa seicentomila
ducati....!
Era in gioco, ovviamente, anche il prestigio delle due importanti e
nobili casate. Alfonso, vista l'importanza della vertenza in gioco, si immerse subito a
capofitto nello studio delle carte; le lesse e le rilesse per oltre un mese... Analizzò
ogni particolare. Fin dall'inizio e con rigore, come era solito fare, analizzò tutti gli aspetti, per valutare se
l'incarico potesse essere da lui accettato, rispettando quell'etica deontologica
che si era imposto nel suo “decalogo” (non difendere le cause inique e trattare
le cause degli altri come le proprie).
Il nocciolo della contesa, da cui
pendeva il giudizio, era quello di stabilire se il feudo di Amatrice fosse
stato un "feudo antico"
(ossia soggetto alle regole angioine e longobarde) oppure un "feudo nuovo". Alfonso non aveva più
dubbi, doveva sostenere nel dibattimento che era un "feudo antico",
tesi che premiava e rendeva giustizia al suo assistito, Filippo Orsini.
Lo
sostenne in tribunale con forza e veemenza, mettendo in campo tutta la retorica
e l’eloquenza che possedeva.
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Sala dei Busti in Castel Capuano |
La questione da dirimere era complessa, ossia: “Un
feudo concesso con assenso reale a chi di diritto può ereditarlo, non è nuovo
ma antico”, quindi il tribunale della Regia Camera della Sommaria, non poteva
riassegnare il feudo di Amatrice, requisito per debiti agli Orsini e concederlo
ai Medici, rendendolo un “feudo nuovo”, liberandolo da tutti i crediti, in
particolare togliendo il diritto agli Orsini di riottenere il denaro e i beni
requisiti anni addietro, in forma di ipoteca creditizia, per il risarcimento di
alcuni danni commessi da Alessandro Orsini, loro antenato.
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Sala dei Busti (part.), la freccia indica la lapide di dedica a Sant'Alfonso |
Ovviamente i Medici
usarono tutti gli stratagemmi e i “mezzucci” che potevano mettere in campo (... non mancavano nemmeno a quei tempi, anzi…!), per esercitare la loro autorevole
influenza e far pressione sulla giuria del tribunale …!
La
burrasca stava per piombare imminente sulla testa del povero Alfonso…!!
I
biografi, non a caso, fanno riferimento a un dono singolare, notato da tante
persone in quel periodo: una coppia di orsetti, che il cardinale viceré fece
recapitare al presidente del tribunale, perché potesse “chiudere
un occhio”...
Nel
giorno dell’udienza finale, Alfonso si recò in tribunale impettito, sicuro di
avere la vittoria in pugno... Eh che vittoria!! Addirittura sulla casa dei
Medici, sul Granduca di Toscana…!
Alzatosi in piedi nell’aula, pronunciò un’appassionata
arringa, dimostrando tutto il suo assunto, con prove, evidenze, citazioni di
leggi e atti vari.
Ecco cosa scrive un suo biografo (*) a riguardo: “E’ facile immaginarcelo giostrare con
intelligenza e forza, profondendo testi e riferimenti storici, secondo l’uso
del tempo, per mettere in evidenza il principio che vedeva d’accordo i migliori
giuristi:
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Francobollo commemorativo, in occasione dei 200 anni dalla morte |
“Un feudo antico, che assume una nuova qualità, non diventa per
questo nuovo”. Poi dovette sottolineare il palese atto di ingiustizia che aveva
privato dei loro diritti gli Orsini di Gravina, creditori ipotecari di
Amatrice, mentre lo stesso sovrano non poteva sottrarre titoli di proprietà a
dei terzi innocenti.
Al
termine della sua splendida oratoria, tutti erano convinti del suo successo. Tutti, meno
che l’avvocato dei Medici, un certo Maggiocchi, che senza nemmeno fare
l’arringa di replica, invitò semplicemente il suo “distratto” collega a
rileggersi le carte della transazione del feudo, e a prestare la sua attenzione
su quel “codicillo”, inserito nel documento, che recitava semplicemente “in novum feudam”, ossia "secondo un feudo
nuovo".
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Cappella presso la casa natale di Marianella |
Riportiamo
ancora il commento del biografo (*), per descrivere il dramma vissuto da Alfonso in
quel momento: “La scintillante e rigorosa
argomentazione di Alfonso fece vibrare l’uditorio in un mormorio di
ammirazione; ancora una volta aveva vinto. Che potrà mai aggiungere Maggiocchi?
Alzatosi, Maggiocchi non si prese neppure il fastidio dell’arringa: - Il signor
de Liguori non sa dunque leggere? I testi sono i testi... - E fece leggere da
un cancelliere la transazione del 1693 con tutte le sue clausole; le parole “in
novum feudum” ricaddero quattro volte, come rintocchi a morto, su Alfonso e sul
suo cliente.
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Facciata della chiesa Redenzione dei Captivi, in via S. Sebastiano |
Il Sacro Real Consiglio
acconsentì, come dinanzi a una evidenza... Chiaramente i giochi erano stati
fatti prima, con la benedizione del cardinale viceré: il potere aveva atterrato
il diritto, calpestato l’equità. Come colpito da un fulmine, l’avvocato dalle
mani pulite restò un attimo interdetto, poi rosso di collera, pieno di vergogna
per la toga che portava, sordo alle consolazioni ipocrite del presidente
Caravita, uscì, a testa bassa, dalla sala dell’udienza e dal palazzo, ripetendo
dentro di sé: - Mondo, ti ho conosciuto... Addio Tribunali!”.
Confuso,
come stordito da un colpo ricevuto alla testa, giunse a casa, senza ricordare
per quale via o mezzo utilizzati, si chiuse in camera sua senza voler vedere
nessuno, saltando il pranzo e la cena, nonostante i richiami e le suppliche
della madre, del padre e di tutta la casa sconvolta!
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Interno della chiesa, l'altare della Madonna della Mercede è a sx della foto |
Per
tre giorni restò chiuso nella sua stanza a sbollire il livore e la cocente
delusione, e solo nel terzo giorno non seppe più resistere alle invocazioni di lamento
della madre e riuscì ad ingoiare appena alcune fette di melone, che gli parvero
quanto di più amaro potesse esserci al mondo…!
Passata
la burrasca, Alfonso si congedò da tutti i suoi clienti, ruppe le sue relazioni
mondane e non frequentò più né amici né parenti. Divideva il suo tempo tra la
chiesa della Madonna della Mercede, l’ospedale degli Incurabili e la sua
stanza, dove si immergeva lungamente nella preghiera o nella lettura delle vite
dei santi, e, ancora, recandosi nella chiesa delle Sacramentine o in altre chiese, nelle quali avevano luogo
l’adorazione del SS. Sacramento.
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Statua della Madonna con spadino di S. Alfonso, cucito ai piedi dell'abito |
Aveva
confidato a un amico: “Molte cause si
perdono, per l’esattezza, ed onestà degl’Avvocati; i Giudici si possono
ingannare in materia di fatti; Le circostanze dei fatti sono innumerabili; Non
ci vuol molto a travedere; Fatto un danno, come si ripara? La nostra
Professione è pericolosa. Per salvarci l’anima bisogna abbandonarla”. Le
sue ambizioni sulle vanità del successo e della gloria nella società si erano
disciolte ben presto dinanzi al fuoco cocente della realtà. “Ammazzarsi” in
questo mondo per rischiare l’anima nell’altro significava pagare troppo cara
una gloria fatta di fumo... E per una giustizia aleatoria!
Disse
un giorno a Don Giuseppe Capecelatro: “Amico
mio, la nostra vita è troppo amara, troppo pericolosa; noi facciamo una vita
infelice, e passiamo pericolo di fare mala morte. Io voglio lasciare i
Tribunali, che non fanno per me, perché voglio salvarmi l’anima”.
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Chiesa Redenzione dei Captivi, cappella delle reliquie alfonsiane |
Nel
pomeriggio del 27 agosto del 1723, mentre saliva le scale dell’ospedale
Incurabili, per andare a confortare i suoi ammalati poveri, come era solito
fare, improvvisamente Alfonso si vide in una grande luce, l’edificio gli sembrò
scosso dalle fondamenta e il suo cuore intese una voce, distintamente: “Lascia il mondo, e datti a me”. La voce
ritornò incessante anche mentre, al termine del servizio, lasciava l’ospedale:
giunto a metà della scalinata esterna, gli sembrò di nuovo che tutta la
costruzione crollasse e sentì la stessa voce: “Lascia il mondo, e datti a me”.
Si
recò nella chiesa della Redenzione dei Captivi, per gettarsi ai piedi della immagine
della Madonna della Mercede, consacrando in quel luogo, il voto di farsi
sacerdote.
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Alfonso dona lo spadino di cavaliere alla Madonna della Mercede |
Si strappò dal fianco la spada di cavaliere, con tutto ciò che
questa rappresentava per il suo grado di nobile, deponendola
sull’altare, ai piedi della Madonna della Mercede.
Questo spadino d’argento fu poi
venduto e il ricavato servì a far modellare la corona d’argento che sovrasta il
capo della Vergine (sull’altare, al suo posto, fu messa una copia, poi in
seguito rubata).
Per
la cronaca, alcuni anni dopo, quando Alfonso era già diventato sacerdote, in
un tribunale di Vienna si svolse il processo d’appello, e la sentenza questa volta fu
favorevole alla famiglia degli Orsini… Alfonso aveva dimostrato ancora una
volta di aver visto bene… La causa sarebbe stata vinta, se non ci fosse stata la
discussa influenza politica…!
Sono trascorsi tre secoli circa dall'esperienza vissuta da Alfonso avvocato, un'esperienza di vita che la dice lunga, se rapportata al nostro tempo, perchè non tanto dissimile riguardo alle illusioni e alla caducità delle cose del mondo, tuttavia la morale finale che ne traiamo da questo racconto è quella che un
“Codicillo”, apposto sull’atto di transazione, forse in maniera truffaldina (come ci indica il biografo), strano a dirsi, ci ha fatto un grande e magnifico
dono..., invece di aver consegnato alla storia della giurisprudenza napoletana un
grande magistrato (sarebbe stato uno tra i tanti avuti nei secoli), ci ha reso invece un grande Santo, un Dottore
della Chiesa universale, che fa onore a Marianella, a Napoli e alla Campania in tutto il Mondo: Sant’Alfonso Maria de Liguori.
Questa volta il male ha portato tanto bene!
Salvatore Fioretto
(*) Per il racconto è stato preso in riferimento il libro biografico dal titolo: "Il santo del secolo dei lumi" di Theodule Rey-Mermet, parte prima.