Già in passato abbiamo dedicato un post apposito alla vita di Sant'Alfonso dei Liguori, narrando le vicende che lo portarono ad abbandonare per sempre la carriera forense di avvocato, per via di una sofferta ingiustizia subita nel corso dell'importante processo che lo vedeva nel ruolo di difensore degli interessi della nobile famiglia Orsini di Napoli, contro il Granduca di Toscana della potente famiglia dei Medici; la disputa del processo era il possesso del feudo di Amatrice. Abbiamo trovato, proprio in questi giorni, questo articolo nella rivista diocesana di "Asprenas", dell'anno 1960 (scritto dal redentorista padre Oreste Gregorio), che descrive in maniera chiarissima ed essenziale come effettivamente andarono le cose, e quali furono le posizioni prese dall'avvocato Alfonso, prima e durante il dibattimento al tribunale de "La Vicaria". Ci piace riproporlo ora, proprio per divulgare, a tutti i visitatori e ai lettori di questo blog, la grandezza etica-professionale e soprattutto morale del nostro amato concittadino e Santo: Alfonso Maria de' Liguori.
Ecco il testo scritto da p. Oreste Gregorio, buona lettura.
"Quanti il 2 agosto
festeggiano S. Alfonso de Liguori, rievocano, siamo certi con la solita
compiacenza venata di meraviglia l’incidente giuridico, che disarcionandolo in
pieno assetto giovanile provocò un capovolgimento nella sua vita professionale.
A misura delle informazioni possedute chi deriva il notorio insuccesso della
lite feudale, svoltasi nel torrido luglio del 1723, dall’omissione di una
piccola circostanza o da un errore di procedura; chi da una svista casuale o da
uno sbaglio innocente; chi poi pensa ad
un’allucinazione di mente o addirittura ad una madornale negligenza di
documentazione. Ma i più continuano a indugiarsi sopra a una particella
negativa, che sarebbe sfuggita ai suoi occhi miopi determinando l’increscioso
epilogo!
Che c’è di obiettivo
nelle differenti versioni forniteci dai biografi antichi e moderni e sfruttare
anche oggi con dettagli alle volte vistosi dai predicatori di cartello?
Crediamo che la
devozione non debba sostituire la storia, scansando comodamente il duro solco
delle ricerche, né la fantasia possa permettersi di alterare a suo agio il
significato dei fatti di cronaca sia pure con intenti di edificazione.
S. Alfonso, ultimato
a Napoli, sua Patria il quinquennio universitario (1708-1712) conseguì il 21
gennaio 1713 la laurea in legge civile e canonica: l’Archivio Vaticano del
fondo della Dataria conserva il diploma originale. Il santo contava allora 16
anni.
Dopo un biennio
intenso di prassi forense presso gli austeri giureconsulti Jovine e Perrone,
indossava la toga, comparve a Porta Capuana, entrando un po’ timido nel palazzo
rettangolare dei tribunali, chiamato in quel tempo “la Vicaria”. Incoraggiato
da autorevoli parenti iniziò con entusiasmo la carriera, facendosi presto
strada con le sue doti distinte.
Nel 1718 venne
scelto quale giudice del regio Portulano dai complateari del Sedile di
Portanova ed ebbe occasione di emanare alcune risoluzioni giunte sino a noi
nei registri municipali.
Il Rispoli che al
principio dell’Ottocento poté controllare il Catalogo delle sentenze
(1715-1723), ora perdute, riferisce, senza dubbio.
A 26 anni l’avvenire
dell’elegante e pio cavaliere si schiudeva ricco di prospettive, per cui
rilevava testé l’Accademico D. Rops che egli era diventato “une des gloires du barreau napolitan et un
des jéunes lions de la ville”. E’ vero.
Non stupisce quindi
che a questo magistrato di primo piano s’indirizzasse il duca di Gravina e
Solofra Filippo Orsini, nipote del papa Benedetto XIII, per rivendicare alcuni
diritti sul feudo dell’Amatrice, situato tra la Via Salaria e la Picente
dell’Abruzzo Ulteriore, contro Giangastone dei Medici, granduca di Toscana, che
lo deteneva per parte di Vittoria di Montefeltro della Rovere, che se lo fece
aggiudicare nel 1693 siccome congiunta in settimo grado di Alessandro Vitelli,
dopo però una onerosa convenzione col fisco. Avviata la causa nel 1719 nella
regia Camera della Sommaria, il predetto Orsini esibì l’anno seguente una nuova
istanza per mezzo del proprio procuratore dr. Pulchiarelli, chiedendo la
condanna del Serenissimo Granduca “a pagargli ducati 150 mila una con gli annui
ducati 4 mila dal dì ch’il donatario suo padre venne spogliato del feudo, non
ostante l’istrumento di donazione rogato nel 1688 da Alessandro Orsini,
principe legittimo in quel tempo di Amatrice”.
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Lapide posta nella Sala dei Busti di Castel Capuano. Foto di F. Kaiser
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Frattanto per ordine
di Vienna l’avvocato imperiale Giuseppe Sorce riapriva la lite a favore
dell’erario contro il medesimo granduca, sostenendo in prolisse allegazioni “le
ragioni di Sua Maestà cattolica e cesarea Carlo VI”. Come si constata, i due
processi erano paralleli, sebbene tenessero di mira mete diverse: il bersaglio
da colpire ed abbattere rimaneva comune.
Si sa che la materia
contenziosa non era né è un divertimento gaio: nella foresta legislativa
occorre scoprire il sentiero meno infido per non smarrirsi. S. Alfonso con acutezza e ardore s’industriò di
dipanare l’incartamento arruffato,
ponderando ogni parola. Sfogliò codici
longobardi ed angioini; lesse decisioni omogenee; ne discusse con persone
competenti. Trascorse un mese spaccato nello studio del processo sensazionale,
cominciando dalla preistoria. Si persuase che il feudo dell’Amatrice conceduto
da Carlo V nel 1538 in perpetuo al fedele capitano Alessandro Vitelli ed ai
suoi discendenti poggiava sulla clausola “in
feudum antiquum” con espressa derogazione alle consuetudini vigenti nel
Regno. Beatrice Vitelli nel 1586 sposò Virginio Orsini; spentasi nel 1606, il
figlio Latino, denunziato il decesso della madre, assunse il governo di
Amatrice. Il feudo per tal via passò dai Vitelli agli Orsini.
Su questa base S.
Alfonso costruì la difesa, dando scarso valore alla transazione del 1693, nei
cui atti Vittoria di Montefeltro ottenne scaltramente con l’assenso del viceré
Francesco de Benavides che fosse inserita la clausola “in feudum novum”, quasi
si trattasse di una novella investitura.
Era appunto questo
il nocciolo della anticatissima controversia. Tra i feudisti meridionali
circolavano opinioni contrastanti: alcuni, come il chiarissimo De Rosa,
affermavano che una qualità sopraggiunta non guastava la primitiva fisionomia
del feudo; altri ritenevano invece il contrario. Scriveva A. Bruno: Feudum ex pacto antiquum fit novum, si
adiiciatur nova qualitas. S. Alfonso, attenendosi alle serrate
argomentazioni di Sorge, insistette con riferimenti storici e autorità
giuridiche che l’investitura compiuta da Carlo V perdurava sostanzialmente nei
suoi effetti. In altri termini, al di fuori dei cavilli, l‘Amatrice andava
considerata come feudo di collazione antica anche sotto il regime asburgico.
Naturalmente l’agente
mediceo Giovanni Batt. Cecconi, secondo le istruzioni ricevute dai ministri
della Toscana, si apparecchiò a parare il colpo, mobilitando i grossi calibri
del foro napoletano. Né mancò, come pare, l’intrigo. Si recò a raccomandare
caldamente l’affare pendente al viceré card. D’Althan e per accaparrarsene il patrocinio gli regalò due orsacchiotti,
d’altronde assai desiderati, fatti venire da Capestrano. Avvicinò pure il
marchese Mauleone, luogotenente della regia Camera, come risulta dal carteggio
superstite che è nelle filze dell’Archivio di Stato di Firenze, per piegarlo,
come pare, dalla parte sua.
Si arrivò finalmente
al giorno del dibattito in un clima arroventato di attesa. L’aristocrazia e
l’università partenopea erano in visibile fermento.
Il Liguori, sicuro
del fatto suo, prese a perorare con vigore, esponendo il frutto delle pazienti
indagini: con enfasi metteva opportunamente l’accento sopra l’immutata natura
del feudo, deducendone con limpida logicità che le ipoteche gravanti su di esso non erano decadute a danno dell’Orsini con la transazione
intercorsa. Ripeteva con una certa baldanza col migliore dei feudisti coevi: Nova qualitas non facit feudum simpliciter
novum. Una clausola apposta in un secondo momento non variava l’essenza
natia della investitura: a suo giudizio, corredato di larga erudizione, un
feudo sorto come antico rimaneva tale nella molteplice successione ereditaria. Il ragionamento
filava e sotto parecchi aspetti dimostravasi anche convincente.
Durante la
sessione uno dei giudici, probabilmente Antonio Maggiocco di Bagnoli Irpino
(1673-1747), ordinò la lettura ufficiale della transazione del 1693, osservando
che la clausola “in novum feudum” non era accidentale. Gli avvocati medicei
Ruffo, Camarota, Iovino, Rocca, D. Bruno, Onofri scattarono all’attacco con
veemenza per abbattere la difesa allestita dal Liguori. Seguì una vivace
discussione intorno alla duplice clausola. I giudici, connivente il
luogotenente Mauleone, cedendo alle sollecitazioni della corte viceregnale,
finirono per schierarsi dal lato del granduca, riconoscendo l’efficacia
preponderante della clausola “in novum feudum”.
S. Alfonso, appena
ebbe sentore delle interferenze politiche, s’indignò dignitosamente. La palese
parzialità in una questione tanto grave suscitò nel suo spirito una crisi
violenta. Rettilineo nella professione che aveva coltivata con severi costumi,
non abituato ai maneggi, indipendente da pressioni alte o rimunerative,
ammutolì di punto in bianco, ed indi si allontanò bruscamente dall’aula, quantunque
Domenico Caravita (presidente dei giudici del tribunale ndr.) tentasse con maniere dolci di fermarlo. Una vetusta
tradizione attendibile, raccolta dal P. Tannoia, attesta che uscendo abbia
esclamato: “Mondo, ti ho conosciuto ... Addio Tribunali!...
Maturava un ideale
latente.
S. Alfonso era
consapevole che l’esito infausto della sua difesa non scaturiva da negligenza
di documentazione, né da sviste di particelle negative come racconta
Capecelatro o da confusioni di codici come pretende il Pastor, e ciò aumentava
l’intimo dramma. Il disgusto venutogli dalla condotta unilaterale dei giudici
aveva ferito la sua anima candida e intransigente. E’ puerile immaginare che
sia stato colto alla sprovvista e che lo scacco abbia scombussolato i suoi
disegni. Quale avvocato di buon senso crede di vincere sempre? La sua pena
sgorgava da motivi più profondi e l’indusse a non volerne sapere più del foro.
Trentacinque anni
più tardi a Pagani ricordò la vicenda, conosciuta confusamente, in poche
battute, che un suo discepolo attento si affrettò a segnare in una paginetta
custodita tuttora nell’Archivio generale redentorista: ”A dì 29 agosto 1758 nella ricreazione, la sera, con il nostro Padre
s’era dato a Dio disse varie cose su questo sugetto. Difendeva il nostro Padre
da avvocato il sig. duca di Gravina in una lite di seicento mila docati in
circa che aveva colla casa de’ duchi di Toscana, e poiché l’affare era di tanta
conseguenza ci aveva studiato molto e molto tempo. Il punto stava in dichiarare
se un feudo era nuovo o antico. Il Padre nostro sosteneva che era vecchio.
Quando uno de’ giudici, forse il Magiocchi, disse che si fusse letto il diploma
della concessione, ove si trovò espressa la clausola in novam. E pure questa
scrittura era stata varie volte letta dal nostro Padre”.
Il testo non ha
bisogno di commento: nella sua linearità rischiara retrospettivamente la causa
feudale e mettendola a fuoco stronca in antecedenza le leggende curiose dalla
bocca di taluni testimoni che nel periodo dei processo apostolici s’illusero
con esse di offrire una spiegazione plausibile circa l’agire intemerato di
Alfonso avvocato. Le povere ricostruzioni tardive s’intrusero purtroppo nella
sua biografia, che aspetta una intelligente epurazione almeno dopo due secoli. E il guadagno della
statura del Santo non sarà lieve.
Nella sintetica
cornice documentata si capisce meglio che la sua vocazione ecclesiastica non fu
un meschino ripiego. Non era un avvocato fallito, alla deriva, che per dispetto
alimentato dall’orgoglio piantava la magistratura, aggrappandosi all’altare
come ad una tavola di salvezza per rifare l’onore. I germi preesistenti
sbocciarono al vento scottante dell’insuccesso subito senza colpa. Deluso della
fragile giustizia umana si orientò con maschio coraggio verso l’incorruttibile
giustizia divina, che non ha alternative, per servirla con dedizione amorosa.
Non ci sarebbero
stati spiacevoli intoppi.
Dio non restò
assente nella mutazione della rotta: era al lavoro con lui sin dall’infanzia
nel focolare, ove si respirava aria cristiana. Guidò il coscienzioso paladino
della legge nelle vie nuove, facendo di
lui un fondatore di missionari, un vescovo intrepido, un dottore zelantissimo
della Chiesa e un celeste patrono dei confessori e moralisti."
Articolo firmato da "Oreste Gregorio C.ss.R."
(Da Asprenas - Gennaio-Aprile 1960 Anno VII
n.1 - Organo dell’Accademia Ecclesiastica Napoletana, ppag. 117-121. Redazione
amministrazione viale Colli Aminei, 3 - Napoli).
A conclusione di questo bell'articolo su Sant'Alfonso, riportiamo per esteso le dodici regole da seguire per un buon avvocato, scritte di suo pugno, quando esercitava la professione forense. Da notare l'estremo rigore che si era prefissato Alfonso nell'esercizio della sua professione!
S. F.
Le dodici regola da seguire per un buon avvocato, scritto da Alfonso de' Liguori, quando esecitava la professione di avvocato:
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