venerdì 8 novembre 2024

Della serie i racconti della Piedimonte: "Ferrovia e paesaggio: matrimonio perfetto!", di S. Fioretto (1^ parte)


Continuando la serie dei ricordi della Piedimonte, pubblichiamo in questo post il secondo capitolo del libro "C'era una volta la Piedimonte", edito nel 2014 dalla casa tipografica "Athena net". E' una descrizione mista tra la nostalgia e i ricordi di bellezza, che narra dei caratteri della ferrovia e del paesaggio attraversato, visti dagli occhi di un fanciullo. Ricordi di un periodo spensierato che ha fatto da spartiacque tra un mondo semplice e bucolico e un Quartiere diventato troppo velocemente la periferia della Metropoli, tuttora in cerca di una nuova identità. Il capitolo è stato suddiviso in due parti per questioni di spazio.


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"La ferrovia ed il suo servizio sociale...  (1^ parte)

La vita in periferia scorreva felice e tranquilla alla fine di quei fantastici anni sessanta e così pure agli inizi del decennio successivo, che, per quanto mi riguarda, non fu meno bello...! Si, anche gli anni settanta furono belli...! E la ferrovia ”Piedimonte”, con le sue periodiche corse era sempre lì a garantire il trasporto pubblico tra Napoli e i paesini del Casertano, apportando il suo contribuito al cosiddetto “boom economico” del paese, in quella che venne chiamata ”Terra di lavoro”.
Io ricordo nettamente gli ultimi sei-sette anni di esercizio, prima della chiusura definitiva della ferrovia. In pratica, il periodo a cavallo tra il 1970 ed il 1976.
I viaggiatori che usufruivano in quegli anni della “Piedimonte” appartenevano alle classi sociali più disparate, dagli studenti, agli impiegati, dai contadini ai venditori ambulanti… Non era infrequente incontrare a bordo dei treni, soprattutto la mattina presto, anziani e donne, che portavano “spaselle” e cesti pieni di prodotti della campagna e delle loro masserie, per venderli nella grande metropoli.
Spesso le massaie portavano con loro dei vistosi cartoni rettangolari, con coperchi forati: erano dei contenitori pieni di pulcini appena nati, comprati al mercato di Marano, destinati ad essere allevati nelle aie delle masserie. Il loro era un destino segnato… Sarebbero diventati i più bei capponi per il Santo Natale. Per tutto il viaggio non si udiva altro che il pigolio di quelle povere bestiole…
I mercati più frequentati erano quelli di Marano e di Giugliano. Le corse più affollate del treno erano quelle del Giovedì e del Sabato mattina.
Il treno della Piedimonte, negli ultimi tempi di esercizio, si componeva di un locomotore e di una sola vettura trainata; in quest’ultima era presente l’intero scompartimento di seconda classe, oppure metà di seconda classe e metà di prima classe. Nel locomotore era possibile trovare la stessa disposizione degli scompartimenti delle rimorchiate.
La rimorchiata presentava due varchi di accesso con altrettanti atri d’ingresso, attraverso i quali si accedeva allo scompartimento, mediante gradini di legno sporgenti dalla vettura, a dei piccoli pianerottoli delimitati da cancelletti in ferro. Attraverso una porticina di legno bianca, si accedeva allo scompartimento viaggiatori di seconda classe, nell'unico corridoio centrale. Questo scompartimento si componeva di un unico ambiente arredato con una serie di panche di legno a doppio posto, costruite di listelli di legno e disposte perpendicolarmente a destra ed a sinistra del corridoio. Ogni panca, fatta eccezione per quelle di estremità, erano composte da due sedili contrapposti, con schienale comune. In una panca c’era posto per solo due persone, di fronte ad essa era presente un’altra identica panca. Sul bordo dello schienale, nel lato corridoio, era sporgente un manico di ottone che dava la possibilità al passeggero in transito a potersi mantenere in posizione eretta, durante lo “sballottamento” del treno in corsa. Si sa che il treno a scartamento ridotto è meno stabile durante il viaggio rispetto a uno a scartamento ordinario…
I finestrini del convoglio erano posti in mezzo ad ogni coppia di panche; essi erano molto semplici da manovrare, perché erano composti da un telaio mobile, che si chiudeva facendo scorrere, in apposite guide verticali, l’anta di legno con il vetro. Per aprire e chiudere i finestrini si doveva fare leva con le braccia, aiutandosi con i due maniglioni, posti nella parte alta del telaio.
L’illuminazione della vettura era assicurata da una serie di piccole plafoniere, poste allineate sotto la volta dello scompartimento; le plafoniere erano costituite da tazze di vetro, color opaco bianco, del tipo aperte, aventi i bordi orlati e dentellati e con una base colore marrone scuro. La conformazione interna dello scompartimento di prima classe, quando era presente, era molto diverso da quello della seconda classe. In esso esistevano, se non ricordo male, circa dodici posti a sedere, composti da coppie di poltroncine affacciate a due a due, rivestite con un bel velluto rosso o verde. Dello stesso motivo erano le tendine dei finestrini e le pareti del convoglio. In un punto del vano era appeso uno specchio ovale con cornice dorata.
Nel locomotore l’accesso ai due scompartimenti era assicurato da un varco centrale al convoglio, molto più ampio degli altri presenti sul treno. Alle estremità della elettromotrice, invece, erano presenti le postazioni di guida del conducente, ognuna con una coppia di sportelli di accesso indipendenti. Il locomotore, infatti, aveva i comandi contrapposti, in pratica una doppia cabina di comando.
Negli ultimi tempi, come sappiamo, il capolinea di Napoli era stato arretrato dallo "Scalo Merci" della Doganella, alla stazione di Secondigliano. Ricordo che questa stazione possedeva il classico parco ferroviario, tipico delle stazioni della Ferrovia Piedimonte che avevano certa importanza, ossia un fascio di tre binari che si aprivano “a rombo”, con comando degli scambi del tipo manuale. Questo sistema di binari consentiva l’inversione della motrice dalla posizione “di coda”, alla posizione “di testa”, rispetto alla vettura trainata: in pratica, si manovrava il locomotore sui binari laterali, agendo sugli scambi manuali e si lasciava ferma la “vettura trainata” sul binario centrale.
Alla fine delle manovre si agganciavano le vetture. Le due banchine della stazione di Secondigliano erano realizzate in tavole di legno (tavole “di ponte”), inchiodate ad assi, anch'essi di legno, posti una certa altezza sopra la massicciata e con ai lati piccoli scivoli, sempre fatti di tavole in legno.
Ricordo, vagamente, anche la stazione di “Scalo Merci”, tuttavia, i ricordi di questa stazione mi risultano un po' annebbiati. Andavo spesso al corso Malta con mia mamma a fare acquisti al mercatino che si faceva in quella strada, in un giorno preciso della settimana, che però non ricordo...! Per andarci prendevamo sovente il treno della “Piedimonte”. Ricordo, non so perché, l’addetto che controllava le ruote ed i freni: li picchiava con un martello di ferro e ascoltava il rumore emesso dall’urto dei componenti. E poi, c’era anche chi caricava acqua sotto al treno, utilizzando un tubo di gomma nero.
Quando riprendeva il viaggio per Piscinola, il treno affrontava la tratta, dopo i bivio di Miano, a bassa velocità, perché lì esisteva una curva abbastanza “stretta”, forse con raggio di curvatura ai limiti dell’accettabilità tecnica.
Il treno si inclinava di parecchi gradi, rispetto al suo asse verticale. Io osservavo la scena stando seduto nella mia panca e mi divertivo moltissimo, come se stessi assistendo ad un bel gioco, tanto che il fenomeno era inconsueto e strano... Sovente, il treno si fermava in quel punto, quando il semaforo posto "alle porte" della stazione di Piscinola dava il segnale di stop "rosso". Era richiesta la fermata del treno per preparare gli scambi manuali nella stazione di Piscinola e permettere, quindi, di svolgere la coincidenza con la vettura proveniente da Mugnano. Ebbene, fermo e inclinato in quella posizione, il treno appariva ancora più curioso ed i passeggeri dentro agli scompartimenti restavano a lungo silenziosi e sembravano tutti un po’ preoccupati... quasi con il fiato sospeso...! (segue nella seconda parte)

Salvatore Fioretto

Il testo del racconto essendo un opera letteraria pubblicata è sottoposto alle regole del copyright, pertanto è vietata la riproduzione, il plagio o altro utilizzo arbritario,  senza aver ricevuta l'autorizzazione da parte dell'autore del testo.


venerdì 1 novembre 2024

A Piscinola si festeggiava “Halloween”, ancor prima della guerra…ma a modo nostro...!

Ancor prima dell’ultimo conflitto mondiale, i ragazzini del nostro quartiere solevano festeggiare la ricorrenza dei defunti, con un’usanza dai connotati tipicamente locali, ma sicuramente di origini antichissime. Nel corso della mattinata, i bambini e i ragazzi più grandicelli si recavano di masseria in masseria, di cortile in cortile, bussando a ogni porta, per chiedere in nome dei morti, dolci e leccornie, monetine e anche noci, nocciole e castagne, un po’ come fanno oggi i ragazzi americani quando si festeggia la ricorrenza di Halloween. Alcuni, in gruppetti, si posizionavano anche davanti all'ingresso del cimitero di Miano. Preparavano delle cassettine di legno, che provvedevano a decorare apponendo sul lato a vista, dove era ricavato il foro per accogliere le monete, una piccola croce; questo particolare contenitore veniva chiamato "'a cascettella". Durante il girovagare per vicoli e per masserie piscinolesi, i bambini ogni tanto pronunciavano, a voce alta, un’espressione tipica, diventata poi l’emblema della tradizione, che era:

“‘E mmuorte e ‘o puveriello...! ’E mmuorte e ‘o puveriello!”,

ossia “per i morti e per i poveretti”. Questa curiosa usanza è stata praticata fino al decennio successivo alla fine dell’ultima guerra mondiale.
Altra usanza un tempo praticata nel giorno della commemorazione dei defunti era quella di recarsi al cimitero per onorare la memoria degli avi e delle persone care; al rituale partecipavano tutti i componenti della famiglia: dai nonni, ai genitori, ai figli, fino ai nipoti più piccoli. Tuttavia, specialmente per questi ultimi, era un’occasione ghiotta per gustare i prelibati frutti di stagione, che noi chiamavamo “'e ggranate”, vale a dire i melograni. Per tale usanza, fuori al cimitero di Miano, sostavano almeno un paio di bancarelle che esponevano in ceste questa particolare frutta di stagione, suscitando la golosità dei pargoli e non solo...! Il fatto curioso era quello che l'area circostante alla postazione dei venditori era praticamente ricoperta da una coltre formata da tantissimi pezzetti di paglia sminuzzati, che provenivano dai contenitori della frutta: erano diffusi, sia per il continuo prelievo dei melograni e sia per il vento che favoriva la disseminazione lungo il marciapiede e la strada.

Ripresa dell'usanza delle "cascettelle". Foto di F. Kaiser, 2023
Assieme ai melograni si poteva gustare un altro tipo di frutta tipico della stagione autunnale, rappresentato dai cachi (chiamati in gergo "Legnasante"); quelli venduti in questo periodo erano però particolari, perchè avevano dimensioni molto piccole, ma erano estremamente dolci; per tale motivo si dava ad essi l'appellativo di "'a vaniglia".
Almeno fino a cinquant'anni fa l'usanza di comprare e regalare torroni e torroncini in occasione della commemorazione dei defunti non era ancora arrivata dalle nostre parti (si vendeva solo quello bianco e solo durante le feste patronali), tuttavia qui da noi si usava preparare un altro tipo di torrone, diciamo un po’ più rustico e semplice, specialmente per la scelta degli ingredienti, perchè richiedeva solo dello zucchero, di canna o raffinato. Lo zucchero veniva posto sul fuoco in un pentolino, continuamente girato con una posata, fino a essere portato allo stato di fusione e reso caramellato.
Una volta raggiunto il giusto punto di preparazione, veniva versato su un piccolo marmo bianco di Carrara e disteso anche con l'aiuto di posate, per realizzare uno spessore piccolo ed uniforme. Successamente,  quando era ancora caldo, si tracciava con la punta di un coltello una maglia a forma quadrettata, che facilitava sia il distacco che la degustazione. Mangiarlo era tuttavia un'impresa non da poco, perchè questo dolce di presentava molto duro alla masticazione...!
Sappiamo che l'emblema che contraddistingue la ricorrenza di Halloween è la zucca, svuotata e adattata con le decorazioni e l'illuminazione interna, naturalmente nella nostra tradizione non troviamo niente di simile a questa, perchè essa è una usanza importata alcune decine di anni fa dai paesi d'oltralpe. Tuttavia c’è da aggiungere che, fino a poche decine di anni fa, le zucche erano coltivate in maniera intensiva nelle campagne di Piscinola, Scampia e  dintorni, ma il loro utilizzo era esclusivamente riservato all'uso alimentare, domestico o per l'allevamento del bestiame.
Si coltivavano  diverse varietà di zucca, sia per colori, per forme e per dimensioni, passando da quelle tondeggianti e schiacciate, a quelle oblunghe; anche i colori variavano: dal giallo paglierino, all’arancione acceso. Si coltivava, inoltre, una particolare varietà di zucca che era molto utilizzata per l'alimentazione del bestiame. Questo tipo di zucca, di grosse dimensioni e di forma pressocchè sferica, manteneva immutato il colore esterno di verde scuro, anche quando era matura e presentava il pregio di avere un notevole quantitativo di semi contenuti. Nel periodo di fine estate le zucche venivano raccolte nei campi e portate nelle masserie, con l'utilizzo di carri, quindi depositate all'aria aperta, in un angolo dell'aia. Successivamente, all'occorrenza, venivano tagliate, asportando i semi contenuti, mentre il guscio era dato in pasto alle mucche, oppure aggiunto nel cibo ("pastone") dato ai maiali, assieme ad avena, patate, granoturco e agli avanzi domestici.
I semi di zucca (qui detti “’e samienti”), venivano puliti, lavati e messi ad asciugare al sole. All’occorrenza venivano tostati nei forni, assieme a nocelle, a noci e alle mandorle, oppure degustati al naturale, al termine dei pranzi domenicali e, soprattutto, durante le festività natalizie. L’insieme della frutta secca assortita erano chiamate “'e ciociole”.

La prima parte di questo post è stata tratta dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore" di S. Fioretto, ed. The Boopen, 2010.

Per la scrittura di questo post di ricordi piscinolesi, ringraziamo l'amico Pasquale di Fenzo che, come è tradizione, collabora a Piscinolablog ogni volta che gli chiediamo aiuto, specialmente per rinverdire molti ricordi piscinolesi delle passate generazioni. Ringraziamo anche l'amico Ferdinando Kaiser per averci fornito la foto dell'evento rievocativo delle "cascettelle".

Salvatore Fioretto 

sabato 26 ottobre 2024

"Massi Erratici" nel real sito di Capodimonte... l'ultima scultura di Marisa Albanese

Passeggiando per i luminosi e verdeggianti viali del real Bosco di Capodimonte, nei pressi della cosiddetta "Porta Caccetta", si è attratti da un gruppo di vestigia marmoree adattate ad opera d'arte monumentale. Si tratta della scultura progettata dall'artista napoletana Marisa Albanese, intitolata "Massi Erratici", realizzata postuma, a ricordo dell'artista, due anni dopo la sua scomparsa, nell'anno 2023.

Ecco quanto riportato nella targa apposta ai piedi dell'opera a firma del passato direttore del real Sito di Capodimonte, Sylvain Bellenger, che descrive in maniera chiara e sintetica il significato della scultura:

"Marisa Albanese (Napoli 1947 – 2021)

Massi Erratici (2020-2023)
Elementi lapidei provenienti dai bombardamenti di Napoli del 1943-44 riportati alla luce dopo essere stati abbandonati nel Bosco di Capodimonte. Combattente seduta, marmo bianco di Carrara. Combattente in piedi, marmo bardiglio.
I massi erratici è una poesia di pietra che ci riporta, anche al di là della morte, che la storia non è scritta per sempre e che l’arte è una lotta che trasforma anche la distruzione in rinascita e speranza. Non rinuncerà mai a donare armonia al mondo. Sylvain Bellenger."

Per la scelta del titolo assegnato all’opera, Marisa Albanese scriveva: “Massi erratici o trovanti, grandi blocchi di roccia che sono stati trasportati dagli scioglimenti dei ghiacciai lontano dal loro luogo di origine. Mi piace pensare alle pietre ritrovate nel Bosco di Capodimonte, come pietre erranti che sono giunte a noi da luoghi lontani e poi utilizzate per costruire i grandi palazzi nel centro di Napoli. Architetture contenenti vuoti vissuti e attraversati da persone che hanno assistito nel loro quotidiano agli eventi straordinari e banali della vita”.

I disegni e i progetti artistici ideati dalla scultrice hanno vinto il "Bando PAC della Direzione Generale Creatività contemporanea", sono stati acquisiti e fanno parte delle collezioni del Gabinetto Disegni e Stampe del Museo. Essi rientrano in un progetto complessivo, pensato dall'artista, per realizzare in quella zona scelta del Bosco, in prossimità della "Porta Caccetta", un luogo simbolico della memoria.

Ecco un commento rilasciato a proposito dal passato direttore Bellenger:

Massi Erratici è una poesia di pietra che ci ricorda, anche al di là della morte, che la storia non è mai scritta per sempre e che l’arte è una lotta che trasforma anche la distruzione in rinascita e speranza. Non rinunciare mai a donare armonia al mondo. E per questo voglio ringraziare il marito Giuseppe Fonseca, i figli di Marisa: Fiamma ed Elio, Gianfranco D’Amato e Laura Trisorio e tutti suoi colleghi e amici che le hanno voluto tanto bene. Ecco perché ci farebbe piacere portare a compimento l’idea progettuale di Marisa, completarla secondo i suoi desiderata seguendo fedelmente i disegni preparatori che ci ha lasciato”.

Gli elementi architettonici che compongono l'opera provengono dalle macerie causate durante i bombardamenti cittadini della seconda Guerra Mondiale e furono ammassati nel Bosco di Capodimonte, in un'area prossima alla chiesetta di San Gennaro; essi sono stati poi adattati e ricomposti dalla scultrice Albanese, per realizzare il monumento secondo un disegno da lei ideato. Nel complesso monumentale lapideo sono state poi inserite due sue opere scultoree, intitolate “Le Combattenti”: una in marmo di Carrara e una in marmo bardiglio. Il progetto è stato realizzato anche grazie al coinvolgimento della Fonderia Nolana della famiglia Del Giudice e, oltre del direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger, anche dell'ing. Giampiero Martuscielli e di amici dell'artista.

Ecco la breve biografia dell'artista:

Marisa Albanese, nacque a Napoli nel 1947, frequentò con passione l’Accademia di Belle Arti di Napoli; dopo il diploma, conseguì la laurea in Lettere Moderne all’Università Federico II. La sua vita si svolse praticamente tra Napoli e Milano. Nella sua sperimentazione artistica in arte moderna ha utilizzato diversi mezzi e materiali di espressione: scultura, video e installazioni statiche e dinamiche. Gli argomenti tematici trattati variano costantemente: dai temi sociali e politici, alla rigenerazione artistica e a quella visiva. La sua attenzione è rivolta soprattutto alla ripetizione ciclica delle forme, alla serialità, al doppio, nonchè al movimento dinamico dell’opera. Questi temi e queste profondità artistiche sono presenti nelle sue creazioni, con forme ed espressioni di tensione e di contrasto che evolvono; esse si ripetono costantemente fin dalle sue prime opere, e che si fanno via via più sublimi e figurative nel corso del tempo: ricordiamo l'opera "Le resistenze" (anno 2002), "Le combattenti" e tante altre creazioni. Nella sua produzione artistica, Marisa Albanese ha trattato anche i temi sociali, come la condizione abitativa, il nomadismo, il problema dell'immigrazione. Registrava tutte le sue esperienze visive nel suo caro taccuino di viaggio, tramutando i suoi viaggi reali in viaggi interiori e nell'inconscio, con disegni e schizzi: un dialogo interiore tra paesaggio e artista!
Marisa Albanese ha partecipato a numerose mostre d'arte, le sue opere sono custodite ed esposte in diversi musei e luoghi pubblici, tra i quali ricordiamo il museo "Madre" di Napoli e la stazione "Quattro Giornate" della metropolitana di Napoli.

Salvatore Fioretto