sabato 13 febbraio 2021

Giovanni Antonio de Teolis, detto il Campano, storico, filosofo, scrittore e poeta dell'umanesimo meridionale

Percorriamo spesso la strada che porta il suo nome, via Giovanni Antonio Campano, che è da tutti semplicemente indicata con il toponimo, tutto piscinolese, di: "A via nova 'e Chiaiano", ma pochissimi conoscono questo importante personaggio della storia letteraria della Campania e dell'Italia intera, nel periodo dell'Umanesimo.
Questa strada rettilinea, lunga quasi un chilometro, è di formazione alquanto recente, intorno agli anni '50, ma il personaggio è antico e, pur essendo campano di nascita, ha però ben poco a che fare con la storia del nostro territorio. Diciamo che si è trovato qui, quasi per caso, come Giovanni Bernardino Tafuri, d'altronde...
Ma andiamo per gradi, descrivendo la bella biografia di questo illustre personaggio dell'Umanesimo meridionale.
Giovanni Antonio de Teolis, che poi verrà riconosciuto con l'appellativo di "Campano", nacque nella provincia di Caserta, in un piccolo paesino chiamato Cavelle di Galluccio, nell'anno 1429, da una famiglia di origini modestissime e umili, formata probabilmente da cinque fratelli, di cui, oltre il nostro Giovanni Antonio, troviamo due fratelli certi, perché menzionati dallo stesso scrittore nel suo Epistolario, e si chiamavano Amerigo e Angelo, e altri due fratelli, non certi, che forse si chiamavano Antonio e Michele. 
L'infanzia del Campano fu subito segnata da una grave perdita, per la prematura scomparsa del padre, avvenuta a soli 35 anni. Apprese i primi rudimenti della cultura grazie al parroco del suo paesino nativo, e grazie a un suo zio, Teolo, che lo adottò e l'accolse nella sua casa. Intorno all'anno 1445 si trasferì a Napoli per intraprendere gli studi accademici, e guadagnandosi da vivere facendo il precettore dei rampolli della nobile famiglia Pandoni. Tra i suoi insegnanti universitari si riconoscono i celebri Niccolò Rainaldi da Sulmona e Angelo Catone da Supino. Nell'anno 1452 si mise in viaggio per la Toscana, ma si fermò a Perugia; purtroppo il progetto di recarsi a Siena assieme al fratello Amerigo, per seguire le lezioni del celebre giurista Mariano de Sozzini si interruppe, a causa di un assalto di banditi avvenuto lungo la strada.
A Perugia, Giovanni Antonio fu accolto sotto la protezione della influente famiglia Baglioni, nella quale fece da precettore ad uno dei suoi rampolli, e potette quindi studiare il greco, presso l'università cittadina. I suoi progressi furono notevoli, tanto che lo troviamo pochi anni dopo, nel 1455, assunto docente per coprire la cattedra di retorica, presso la stessa università di Perugia.

Nel capoluogo Umbro, il Campano ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare anche nella vita civile, pronunciando apprezzati discorsi nel corso di importanti eventi pubblici. Tra il 1457 ed il 1458, a causa dell'imperversare della peste in città, si rifugiò in una località sul lago Trasimento, e ivi compose alcune sue importanti opere, tra cui: De Felicitate Thrasimeni.

L'elezione al soglio pontificio di Pio II, il 19 agosto 1458, segnò una importante svolta nella vita di Giovanni Antonio. L'incontro con il nuovo pontefice avvenne durante la sua presentazione all'ambasciata perugina, nel 1459.

Papa Pio II
Nel successiva visita papale a Mantova, Campano, entrò in contatto con la cerchia della quale si contornava il pontefice, ed in particolare conobbe Giacomo Annanati, segretario pontificio e favorito del Papa. Quest'ultimo lo invitò ad aggregarsi alla curia romana, ottenendo l'impiego presso l'influente cardinale Filippo Calandrini.
Negli anni che seguirono, Campano ebbe modo di seguire il cardinale Calandrini, nel corso dei suoi numerosi viaggi nella penisola, in particolare a Mantova, a Rimini e nella stessa Perugia. Nel 1460 fu a Siena e, poi, di nuovo a Perugia per accompagnare le indagini del cardinale, su un omicidio avvenuto all'interno della celebre famiglia Baglioni.
Nel 1461 entrambi furono a Iesi e poi ad Ancona, per dirimere alcune controversie cittadine. Nello stesso anno, poi, i due accompagnarono il Papa Pio II a Tivoli, per verificare lo stato di costruzione del celebre castello. I suoi meriti e le sue capacità, ma soprattutto le sue raffinate doti poetiche, furono apprezzate da Pio II, tanto da nominarlo vescovo di Crotone, nell'anno 1462. Celebre in quell'anno la bellissima orazione funebre pronunciata da Giovani Antonio per i funerali del Cardinale di S. Susanna, Alessandro Oliva, del quale egli fu conoscente ed amico. Poco dopo, il Papa lo designò vescovo della diocesi di Teramo. In questo periodo il Campano ebbe un peggioramento della sua malattia, l'epilessia, i cui attacchi lo costrinsero a ripetute convalescenze. Nel
1463 lo troviamo a Viterbo, in occasione di un'altra visita papale, ma anche qui fu costretto alla convalescenza, a causa di altri attacchi di epilessia.
A Teramo passò a frequentare la famiglia Todeschini-Piccolomini, dalla quale uscì il successore papale, Francesco Piccolomini, al secolo Pio III. Il Campano accompagnò l'allora cardinale Piccolomini durante i suoi viaggi, diretti principalmente a Roma e a Siena. Tenne un'altra celebre orazione funebre, in occasione della morte del papa Pio II, avvenuta tra il 14 e il 15 agosto dell'anno 1464.
Negli anni seguenti, fino al 1470, il Campano si dedicò alle attività di correttore e di editore di testi antichi, presso alcune tipografie romane, in particolare, quella del tedesco Ulrich Han e quella del medico messinese, Giovanni Filippo de Legnamine.
Dal 1471 vediamo il nostro scrittore ad essere componente designato alle spedizioni diplomatiche (Legazioni), nella veste di oratore, grazie all'incarico ricevuto dal nuovo Papa, Paolo II. La "Legazione" riguardava lo stato della Germania, ed era finalizzata a dirimere la famosa "questione Turca", assieme alla risoluzione di altri problemi interni. Purtroppo la spedizione non ebbe successo, e il corpo diplomatico fece ritorno in Italia, passando per la Svizzera. Quell'anno segnò la scomparsa del papa, Paolo II.
Il successore di Paolo II, fu il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto IV. Il nuovo Papa conosceva bene Giovanni Antonio, avendolo apprezzato durante gli anni della sua docenza all'università di Perugia; quindi lo nominò, nel 1472, governatore di Todi e, successivamente, governatore di Foligno.
Fu fiduciario anche del cardinale Pietro Riario, nipote di Sisto IV, e lo seguì nella spedizione della "Legazione Umbra", nel 1473. Ottenne l'incarico di "poeta di corte", ma per pochi anni, perché il cardinale Riario morì prematuramente. Quindi ebbero termine gli incarichi di governatore di Foligno e di "poeta di corte". Cadde poi in disgrazia, per alcune problematiche interne e, pur ambendo alla carriera ecclesiastica, non fu però scelto alla nomina di vescovo di Teano e di Tricarico. Poco dopo tempo, seguì una ripresa dell'attività diplomatica, con la nomina a governatore di Città di Castello (1474). Caduto di nuovo in disgrazia, tentò di racimolare qualche incarico, come storiografo, presso la Corte di Napoli: all'epoca era re di Napoli Ferrante d'Aragona, ma quest'ultimo non accolse la sua candidatura. Ritornò a Teramo, per attendere alle cose della sua diocesi, pur cullando in cuor suo il proposito di riproporre la sua candidatura al re Ferrante.
Morì nel luglio del 1477, mentre si trovava a Siena, aveva 48 anni. Fu sepolto nel duomo della città. L'orazione funebre fu tenuta dal senese Agostino Dati.
Giovanni Antonio, detto il Campano, è stato un apprezzato oratore, ma anche un raffinato poeta  e, poi, scrittore, storico, stilista epistolare, editore e filosofo. Scrisse molte opere, ricordiamo: "Opera Omnia", "Braccii Perusini vita et gesta", "Vita di Pio II", "Raccolta di Poesie Latine", l'Epistolario, "De Felicitate Thrasimeni" e altre.
Salvatore Fioretto

domenica 31 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: la masseria delle Cesinelle, di G. Baiano (terza parte)

Nella terza parte di questo post, dedicato alle masserie del territorio, abbiamo scelto la bella descrizione della masseria delle "Cesinelle" di Chiaiano, tratta dal libro del gen. Giovanni Baiano: "Il figlio della selva". Intanto salutiamo e ringraziamo il caro amico e scrittore Giovanni.                                                      S. F.

Ecco il racconto:

"Le Cesinelle com'erano nel 2006.

Fino alla partenza per il servizio militare, eravamo trentadue residenti sulla masseria, a prescindere da chi veniva a lavorare e dai componenti della famiglia Sarnelli, che abitavano nella confinante masseria delle Cesine.
Nel periodo estivo, vi trascorreva le vacanze anche la proprietaria della masseria, la Signora Ina D'Aniello con il marito, Arduino dottor Pianese e due figlioletti, Checco (Francesco) e Pasquale, ed un altro ancora nel materno e vistoso grembo.
Spesso nelle ore pomeridiane, con uno dei due bimbi sulle spalle, per gli ombrosi sentieri, si arrivava fin dove c'erano ancora i resti di un'antica villa romana, in parte sotterrata.
Ivi giunti, ci sdraiavamo sui freschi e teneri prati scampati alla calura estiva e mentre si respirava quell'aria ricca di ossigeno e di profumi delle selve di Casaputana, si rimaneva per qualche ora ad ascoltare il suggestivo silenzio e la deliziosa voce di quel solitario, rinfrescante  e tranquillo luogo.
Avevo allora appena undici, dodici anni.
nel periodo della grande guerra, sulle Cesinelle arrivarono anche altre tre famiglie di sfollati napoletani, per un complessivo di ventisette persone.
E in quegli anni che si sono accumulati tanti ricordi che riposano sul letto della mia mente e ogni tanto si svegliano e mi pregano di non farli morire.
Sarà anche per questo motivo che ho deciso di fissarli una volta e per sempre su queste pagine, con la speranza di farli sopravvivere alla mia esistenza, quale memoria storica di un'epoca e di un contesto sociale ed ambientale, che continua ad evolversi in modo vertiginoso e preoccupante per le nuove generazioni.
Nonostante la guerra ed i bombardamenti e le tragiche vicende che seguirono, vissi lassù in un clima quasi sereno, forse perché per noi ragazzini la guerra era solamente un gioco per grandi, o comunque un affare che non ci coinvolgeva.
Alla fine dell'ottocento, mio nonno, nato e vissuto fino ad allora nel vicino Comune di Marano, e già proprietario di un piccolo pezzo di terreno in quella zona, prese in affitto circa nove moggi di terreno di questa masseria del Comune di Chiaiano ed Uniti.
Per abitazione, gli fu assegnato, a piano terra, un locale e tre stalle per gli animali domestici, due stanze al piano di sopra e una parte della soffitta, adibito a fienile, che noi chiamavamo "suppigno".
La stanza a piano terra era dotata di un rudimentale "fuculare" (focolare) ed era usata come locale in cui si ricevevano visite, si mangiava, si soggiornava e si depositava parte della frutta secca e cereali.
Era un locale abbastanza ampio che probabilmente era stato costruito oer la servitù, considerato che presentava una grande e robusta porta in legno, un pavimento sterrato, un soffitto sostenuto da grosse travi e listelli di legno di castagno.
Può anche darsi che fosse una stanza del fattore dove la moglie preparava i pasti. Col passare degli anni, l'utilizzo del focolare aveva annerite tutte le pareti ed il soffitto.
Solo negli anni Sessanta, mio padre la rese più decente con lavori di una rozza soffittatura, una rustica pavimentazione ed una pittatina alle pareti.
Al centro, c'era un vecchissimo tavolo molto lungo per dodici persone, con uno scanno di legno da un lato, su cui sedevano solo i figli maschi (cinque). Sulle sedie, agli altri tre lati, sedevano tutti gli altri appartenenti alla numerosa famiglia. C'era, inoltre, una grande cassapanca di legno, ai piedi del lettino del nonno, in cui erano conservati i pezzi di pane e le "freselle", cotti nel forno a legna.
A fianco al letto, accostato alla parete di destra, c'era pure un vecchio armadio per gli abiti e la biancheria intima del nonno, anch'esso tutto incrostato di nero fumo.
Quando io e i miei due fratelli, Vincenzo e Biuccio, raggiungemmo l'età della pubertà, al posto del letto del nonno fu piazzato un letto più grande per noi tre, perché non ci fu più concesso di dormire nella stanza con le nostre sorelline più piccole. Il lettino del nonno fu allora spostato sul lato opposto, ai piedi del nostro, diviso dalla suddetta cassapanca.
Questi letti erano fatti con due cavalletti di legno su cui poggiavano delle tavole, anch'esse di legno. I materassi erano dei sacconi pieni di foglie secche di mais (sbreglie), o di penne di pollame. Le lenzuola erano di tela di canapa, o di lino, così pure le fodere dei cuscini.
Nelle stalle non mancavano mai le mucche di latte, vitelli e vitelline, né maiali e maialini. Ogni famiglia aveva un asinello o un cavallo, galline da uova, pulcini, galli, capponi, anitre, tacchini, piccioli, conigli e coniglietti di tutte le taglie. Né mancavano due o tre cani e due o tre gatti per famiglia.
Era questo il patrimonio degli animali domestici d'ogni famiglia di contadini di quell'epoca in tutte le masserie della zona e dei vicini paesi.
Al piano di sopra, la stanza da letto più bella e ariosa e decorosamente ammobiliata era usata dai nostri genitori. L'altra interna, con poca luce ed appena dotata di un vecchio comò ed armadio, era occupata da noi figli maschi con meno di dieci anni e figlie femmine.
La masseria era costituita da un vecchio e caratteristico casolare del settecento.
Sorge in cima ad uno dei colli più bassi della collina dei Camaldoli a nord ovest dell'abitato di Chiaiano.
L'antico casolare presenta due corpi aggiunti, per ospitare quattro famiglie di coloni. Se ne costruì prima uno sulla sinistra rispetto agli ingressi e, in epoca più recente, un altro sulla destra.
La campagna circostante è ancora ricca d'alberi da frutta, con presenza di ciliegi, peri, meli, susini e viti di diverse qualità di uva. Siamo nel 2000.
In primavera, tutti questi alberi si caricano di tantissimi fiori dai vivacissimi colori, dal bianco candido al rosa, con svariate sfumature.
Nelle giornate di vento, si assiste ad una spettacolare pioggia di petali variopinti che svolazzano per l'aria, come fiocchi di neve e ricoprono la terra con un manto bianco rosato, su cui spiccano le teste di rossi papaveri e di tanti altri fiorellini di prato. D'estate, poi, quegli alberi si caricano d'abbondanti e saporitissimi fritti di vari colori e dalle varie forme, che si offrono con orgoglio e sempre volentieri a chiunque volesse assaggiarli, anche senza chiedere permesso.
La masseria delle Cesinelle, come tutte le altre della zona, aveva un cortile, un'aia, un forno a legna, un pozzo per la raccolta delle acque piovane, una cantina, che era chiamata "cellaro", ed un sottotetto (suppigno), che veniva usato come fienile.
Tutti questi locali erano d'uso comune oppure opportunamente ripartiti tra i quattro coloni.
Per la sua posizione in cima ad una collina e la composizione e ripartizione dei vari locali e servizi è certamente una delle più caratteristiche masserie della zona, dopo quella della contessa Fontanarosa costruita sul colle Ferrillo, in mezzo alle selve di castagno.
Alle spalle del fabbricato delle Cesinelle c'era un giardino con alberi d'aranci, mandarini e limoni, un fico, una bellissima e altissima pianta di palma, due vecchi alberi d'ulivo che non facevano mai frutto, un gruppo d'alloro, dei nespoli nataligni, detti anche nespoli pelosi.
Questo nostro giardino si distingueva dal resto della campagna per questi alberi particolari e per le rose e i gigli ed altri fiori.
Era l'orgoglio della mia famiglia, cui era stato assegnato, all'atto della divisione della masseria tra i quattro coloni.
Di tutto ciò è rimasto ben poco! Anche della centenaria palma è rimasto solo il tronco, uccisa come tante altre della zona da un verme killer.
Già da molti anni, le tre famiglie hanno abbandonato quelle abitazioni troppo anguste, troppo lontane dal paese e troppo isolate e prive di servizi di qualsiasi genere.
Cominciarono ad andar via, perché non c'era la luce elettrica, telefono e nemmeno acqua potabile, ma solo quella piovana raccolta nel pozzo, piena di vermiciattoli.
Fu solo durante la grande guerra che fu costruito un deposito nel ventre del tufo della nostra selva, quale riserva d'acqua del Serino per la zona ospedaliera.
Tutti i santi giorni, specialmente nel periodo estivo, bisognava scendere laggiù per attingere almeno quella quantità che si usava per bere e cucinare.
Non era così semplice e facile recarsi fin dove passava quella condotta d'acqua. Bisognava attraversare un sentiero nella campagna del nostro vicino, compare Nicola. Si scendeva per una rapida costa di quella nostra selva, attraverso uno stretto viottolo, o saltellando in mezzo agli alberi di olmi, querce ed altri di cui ho sempre ignorato i nomi. Giunti nel suo fondo, si andava avanti, ancora per un breve tratto tra castagni e ginestre, fin sopra il sottostante canalone di Cupa Vrito, dove passava la condotta.
In un certo punto  c'era un tombino coperto da una pesante piastra di ghisa, che bisognava sollevare con un paletto di ferro.
Ci si calava dentro, e, con una chiave inglese, si faceva girare una grossa vite per fare uscire l'acqua da un tubo. Riempiti i due secchi, si richiudeva quella vite, si saliva sopra e si rimetteva al suo posto il coperchio sul tombino. Si tornava indietro per lo stesso ripido viottolo che attraversava il costone, fermandoci ogni tanto per dare un po' di tregua alle mani indolenzite ed al fiato. Ancora altri centro metri circa, tutti in salita e si arrivava sopra la terra del nostro vicino. Lì, dopo un gran respiro di sollievo, ci si buttava per terra per un più lungo riposo, per poi ripartire sempre con quei secchi in mano. Si giungeva a casa senza più forze e con entrambe le mani e braccia indolenzite, maledicendo il nostro destino.

C'era un'altra possibilità di prelevare l'acqua , si scendeva per la strada che conduceva al paese fino alla grotta delle Cesinelle ed anche lì, nella terra del nostro vicino, soprannominato 'o Quartese, c'era un altro tombino con coperchio di ghisa, in cui si doveva scendere per attingerla con le solite operazioni di svitamento e riavvitamento.
Personalmente preferivo andare nella mia selva, dove mi sentivo a mio agio e soprattutto più protetto, per la presenza anche di una fitta vegetazione.

Quella sita nei pressi della grotta era allo scoperto ed io avevo sempre paura di essere sorpreso dagli addetti all'acquedotto, pur sapendo che il prelievo non era vietato a noi coloni della masseria.
Credo che, tra i tanti altri motivi, anche questo sia stato determinante per le mie future decisioni. Ma di queste è ancora troppo presto per parlarne.

Tanto perché si abbia un'idea di come si viveva nelle masserie in quell'epoca, anni Quaranta-Cinquanta, vi dirò che per studiare fino a tarda notte, facevo uso di un lume a petrolio, che mi riempiva le narici di un fumo nero puzzolente e mi faceva bruciare gli occhi. Con la luce del giorno dovevo aiutare mio padre e miei fratelli nei lavori dei campi e della selva.
Nel buio si usavano candele, lumini ad olio e lumi a petrolio. Quando invece, tirava vento e bisognava uscire allo scoperto, si usavano lumi dotati di una campana di vetro, per proteggere la piccola fiammella dal vento e dalla pioggia. La luce ed il telefono fu possibile ottenerli e utilizzarli solo dopo gli anni Sessanta.
Abbandonata a se stessa, quella masseria sta morendo a poco a poco ed io sto assistendo alla sua agonia senza poter far nulla, se non dedicargli dei nostalgici versi."
gen. Giovanni Baiano

Racconto tratto dal libro "Il figlio della selva", di Giovanni Baiano, ed. Collana Poetica Campana, anno 2017 (pagg. 33-38).

Masseria delle Cesinelle, foto di Ferdinando Kaiser

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Ringraziamo il caro amico, scrittore, Gen. Giovanni Baiano, per averci autorizzato alla pubblicazione di questa parte del suo libro dedicata alla sua cara Masseria delle Cesinelle.

Riprendendo l'elenco delle masserie presenti nel territorio, ecco quelle che risultano esistenti nel territorio di Chiaiano, Polvica, S. Croce, Tirone, Nazareth e Orsolona. Alcune di queste sono state trasformate, abbandonate o demolite. Ovviamente, come scritto anche nel precedente post, l'elenco non può essere considerato esaustivo ed è probabile che le alcune masserie sono state elencate più di una volta, con nomi diversi assunti nel tempo.

Chiaiano - Calori - Santa Croce

Dalla mappa di Rizzi Antonio Zannone (1793) si rilevano i seguenti siti, che potrebbero essere stati delle masserie:

-"Riccio"
-"Tutore"
-"Pinto"
-"Colamanca"
-"Cerullo"
-"Martina"
-"Barca"
-"Bocchetta"
-"Brancaccio"
-"Villarosa"
-"Toscanella"
-"Giannone"
-"li Mennilli"
-"Castellaccio".

Masseria Della Corte in via Gaetano Salvatore (Foto di Salvatore Fioretto)

Dal Libro "Santa Croce, nella storia", sono menzionate e illustrate le seguenti masserie delle località di Santa Croce e Calori:

-Masseria "Quaranta"
-Masseria "Marzocchi"
-Masseria "Della Corte" (Ponte Caracciolo)
-Masseria “a Vass’o Cuofane” (Santa Croce)
-Masseria "Palmetiello"
-Masseria "Raiano"
-Masseria "Tre Moggi"
-Masseria "di Lorenzo" (Detto "Peppe ‘o Pitone")
-Masseria "Capuozzo ai due Portoni"
-Masseria "Arco Pinto-Rusciano" (Calori)
-Masseria "Calori di sotto"
-Masseria "Calori di sopra"
-Masseria "Romano" ('Ncopp''a selva - Calori)
-Masseria “Varriale” Chiavazzo (Calori)
-Masseria “Buccio” - Manco (Calori)
-Masseria “Avolio - De Biase"
-Masseria (?) "Villa Vittoria".

Nomi di masserie tratti da altre pubblicazioni:

-Masseria "Terravicina"
-Masseria "Paratina"
-Masseria della "Contessa di Fontanarosa"
-Masseria "Cesine"
-Masseria "Cesinelle"
-Masseria "Fioretti".

S. F.


sabato 30 gennaio 2021

Al car.mo amico e scrittore del libro "Piscinola, la terra del Salvatore", di Don S. Nappa

In occasione del decennale della pubblicazione e della presentazione del mio libro "Piscinola, la terra del Salvatore", ho deciso di rendere pubblica la bella lettera che mi ha fatto pervenire il carissimo monsignore don Salvatore Nappa, nella primavera del 2012. Oltre alle belle parole di apprezzamento per il mio lavoro, don Salvatore giustamente ha sottolineato che nel libro ci sono pochissimi riferimenti alla sua azione pastorale e sociale nella comunità piscinolese dell'immediato dopoguerra, come aiutante della Parrocchia del SS. Salvatore.
La lettera è una bellissima testimonianza che racconta uno spaccato di vita del quartiere, in un momento difficile che fu quello della fine della seconda guerra mondiale; ma nonostante le ristrettezze e le difficoltà economiche, la comunità, soprattutto i ragazzi e i giovani, seppero reagire, mostrando un forte senso di appartenenza e una gran voglia di riscatto, attraverso la cultura e lo sport. Ai due nostri Sacerdoti, D. Salvatore Nappa e D. Domenico Severino bisogna riconoscere e apprezzare la preziosa opera di guida alla formazione, non solo religiosa, ma anche culturale, sociale e sportiva, dei giovani di quel periodo.
In quanto al riconoscimento della sua personalità a Piscinola, come promesso, ho dedicato il secondo mio libro del Centenario della Piedimonte: "Comm'era bella la Piedimonte" nel 2014 a don Salvatore Nappa, facendogli dono della prima copia stampata, nel suo studio, nella canonica a Marianella.
Ecco il testo integrale della lettera ricevuta da mons. don Salvatore Nappa:

"Finalmente ti posso dire: ho letto tutto il tuo libro "Piscinola la terra del Salvatore", e mi compiaccio sinceramente con te, che non solo ci hai fatto conoscere tante belle cose del passato su Piscinola, ma ci hai confermato tante belle cose dei nostri tempi, che io e i miei contemporanei conosciamo. Quanto studio da parte tua, quanta pazienza, quante belle cose dei nostri contemporanei e specialmente dei nostri antenati.
Ci voleva proprio tu, con la tua pazienza, con il tuo studio, con la tua volontà e la tua capacità, e solo tu ci sei riuscito a portare a termine questo lavoro su Piscinola, perché altri ancora hanno cominciato ma solo superficialmente e dopo poco tempo hanno alzato le mani, tra gli altri ricordo "Monsignor Umberto Scandone", di Piscinola, ma Parroco a Porta Piccola, che scrisse però solo un opuscolo, che io ho letto, e che fece poco effetto, tu invece hai cominciato e superato tutte le difficoltà arrivando gloriosamente alla fine.
Una cosa sola ci hai mancato, che per me è molto importante, ma ti perdono, però solo a metà, perché tra me e te c'è una bella differenza di età e poi io non sono vissuto stabilmente a Piscinola, perché, per volontà dei miei superiori, due anni dopo la Consacrazione e cioè nel 1944, andai a dirigere altre Parrocchie e quindi me ne andai da Piscinola, però tu sapevi della mia presenza, perché una volta ci siamo incontrati, ma non ci siamo parlati, per esempio in quella che fu la sede, per poco tempo, "degli amici" a via Vittorio Veneto, dove mi portò mio nipote "Nappa Salvatore", e dove parlai di tutta la mia vita, ma non ci incontrammo e non parlammo.
Non ho mai saputo niente del lavoro su Piscinola che tu stavi facendo e solo dopo che l'hai presentato e c'era anche mio nipote Salvatore che me ne parlò e mi portò il tuo libro, che io ho letto, come ti ho detto, ed ho apprezzato moltissimo e non solo per le molte e belle notizie piuttosto recenti, ma soprattutto per quelle antichissime che nessuno conosceva.
E adesso, per quanto riguarda me e la mia presenza in Piscinola, devi sapere che io sono stato per una decina di anni e cioè dal 1935 al 1945 protagonista assoluto. Nel 1935, infatti avevo appena terminato la 5^ ginnasiale, con ottimi risultati, quando un padre di un ragazzo che io conoscevo, mi disse "Don Salvatore volete preparare mio figlio per la prima ginnasiale?" Si, risposi, ma con un po' di preoccupazione.
Per la verità, ci riuscii bene e, da quel momento, uno stuolo di ragazzi anche da Marianella e da Miano vennero da me per essere preparati agli esami di riparazione ad ottobre o per l'italiano, o per il latino, o per la matematica.
Diventai poi Sacerdote, oltre a continuare con la scuola ai ragazzi, mi interessai dei giovani dell'Azione Cattolica nel circolo di via Vittorio Emanuele. Erano quasi "200" i giovani ed i ragazzi che frequentavano alla sera, con mio sommo piacere, e che diedero inizio alla filodrammatica e alla recita del Rosario alla sera fino alla chiesetta della Madonna delle Grazie, e non mancava ogni settimana la riunione in sede per studiare il testo di cultura religiosa.
La novità avvenne quando verso la fine dell'anno 1943, vennero i soldati americani a Piscinola e pigliarono possesso dell'Edificio scolastico e dei locali del Municipio, dove misero, per poco tempo, il tavolo di Ping Pong e quindi alla sera, dopo la giornata di servizio, tutti a divertirsi attorno al tavolo.
La presenza dei soldati americani costituì per tutti noi, come è chiaro, non solo una novità, ma anche una grande curiosità per cui alla sera, io e alcuni altri ci avvicinavamo alla caserma e ci fermavamo al di fuori della sala ex teatro dove stava il tavolo ed eravamo curiosi di sentire il tic tac della pallina senza che qualcuno ce lo spiegasse. E solo dopo un po' di tempo, quando riuscimmo a sapere tutto da uno dei nostri ragazzi che era stato in collegio, decidemmo di cominciare a fare i primi passi necessari per mettere, nel nostro circolo, il Ping Pong.
E così una mattina, io, don Mimì (d. Domenico Severino, sacerdote) che stava sempre con me e altri due giovani, andammo a Napoli, a piedi s'intende, perché i ponti e di S. Rocco e di Miano erano stati abbattuti dai tedeschi. Io sapevo che al Museo, nei pressi di Piazza Dante, c'era un negozio di attrezzi sportivi, e senza perdere tempo andammo dentro e ci facemmo prendere tutto l'occorrente ma senza che ci fosse la volontà di comprarlo perché non tenevamo i soldi.
Così vedemmo tutto quello che ci voleva, ringraziammo il padrone del negozio, e andammo via. Ma per la via del ritorno subito tirammo le prime conclusioni, perché don Mimì si offrì a preparare la retina con lo spago che già aveva, a procurare la pallina perché conosceva un soldato americano e poi l'amico Scaglione Angelo, falegname si pigliò il compito di fare le racchette e di aggiustare il tavolo che già tenevamo e dopo che tutto fu pronto si cominciò a giocare. Ma quante risate, e quante volte la pallina cadeva a terra. Ma dopo pochi giorni le cose si misero a posto, prima, secondo le poche regole che ci aveva suggerito il nostro amico del collegio e, poi, con le regole giuste che ci avevano fatto conoscere alcuni soldati americani diventati nostri amici. Devo dire, per la verità, che col passare del tempo alcuni giovani divennero così bravi, che cominciarono a sfidare a livello regionale i giovani delle altre associazioni. Però quando io andai a fare il Parroco nella zona di Poggioreale portai con me il tavolo del Ping Pong e questo trattamento serale, piano piano finì completamente.
Quanto alla palla a canestro: per cominciare si dovette aspettare più tempo perché si dovette aggiustare la piazza avanti all'Edificio scolastico, modificare le lampade elettriche perché si doveva giocare alla sera e recintare il campo.  Fin dalle prime partite, io e don Mimì fummo presenti insieme ad un gruppo di giovani. E quando ci rendemmo edotti di questo nuovo sport, cominciammo a pensare come farlo anche noi, ed il luogo adatto era il cortile della sede dell'Azione Cattolica, accanto alla grossa pianta di fichi, lo allivellammo, lo illuminammo perché bisognava  giocare di sera e tutti d'accordo per cominciare si decise per la sera della vigilia del Santo Natale 1944.
Io guidavo una squadra e don Mimì l'altra, e ci mettemmo a giocare ma una pallonata andò a finire sopra i miei occhiali che caddero a terra e si ruppero e fu questo il battesimo della palla a canestro del Circolo Cattolico di Piscinola.
Nel mese di luglio 1945, io andai via da Piscinola e don Mimì prese l'impegno del Circolo e dei giovani e fondò la squadra "Virtus", che si è fatto e si sta facendo molto onore.

mons. Nappa Salvatore   
     

mercoledì 27 gennaio 2021

Lo cunto della Sòvera ca nun voleva morire…!

‘Nce steva, tantu tiempe fa, ‘na campagna, doce e gentile, cu llà vicine ‘na masseria antica…, ma antica assaje…! Per lo mmiez’’a nu Casale ‘e Napule, de’ chille antiche ‘e ‘na vota…
‘Sta campagna teneve tanta piante e àrbere, cierte vecchie assaje: 'Na pianta ‘e lauro, n’ata ‘e fico, po’ ‘na ceveze, tanta nucelle, e àrbere ‘e chiuppe, chille nire nire, ma ca facevano funge ghianche e doce comm’‘o latte!
Mmiez’’a sta terra nce steva n’at’àrbero, curiuso assaje, pure isso assaje viecchio: teneva ‘na curteccia nera nera, tutta vacante dinto… Tutt’‘a gente ‘e ‘stu posto 'a chiammavano: Sòvera…!
Quant’anne tenarria, nisciune ‘o pùtarria sape’…; ‘e cchiù viecchie parzunale, ca tenevano cchiù ‘e ottant’anne, diceveno ca se ll’arricurdavano sempre accussì, sempe vecchia e scavata dinto, ‘a quanno erano state pure lloro guagliune…!
Miez’’a chella bella terra de ‘stu Casale, nce steva ‘nu guagliunciello peccerillo, ca se chiammave Turillo, ca era nato proprio dint’a chella masseria...
Turillo vuleva bene a tutte ‘e persone ca stavene ‘e case llà dinto e tutti vulevano pure bene ‘a Turillo…
‘O spasso ‘e stu guaglione era chillo ‘e sta’ tutt’o ghiorno sempe miez’'a ll'aria ‘e chella masseria. Turillo era bellillo,... curreve, curreve sempe, d’’a matina ‘a ssera, p’’e llemmate e p’’e sseparelle e ghieve pure ‘ncoppe ‘e bbinarie d’’o treno… Turillo tenevo solo ‘nu pate, pecchè ‘a mamma era morta quann’era assaje peccerillo… E dint’’a chella massaria senteva tutt’‘o calore e ‘na famiglia…!
Turillo vuleve bene a ‘sta natura, a tutte ll’aucielle e pure a tutte l’arbere ‘e chella campagna.. E miez’'a chelle, po’, s’era ‘nnammurato 'e chella pianta vecchia ‘e Sòvera… Pecche’ a trattava comm’a ‘nu nonno viecchio! 
Dimandave spisso nutizie ô pate, e a ll’atre viecchie, ma pure chilli dicevano sulo che ‘a Sòvera era vecchia assaje… Dicevano ancora ca chisto era n’àrbero affatato, pecché se raccontava ca ‘ntiempe antichi, llà ce ne stavano doje d’àrbere comm’’a cchisto, e ‘nu juorno, cierti cuntadini, scavanno ‘e ffuosse miez’’a esse pe’ semmenà ‘e perzeche, truvajene n’anfolla assaje gruossa e antica, ca llà sotto era ‘nterrata… e rumpennela pe’ vede’ che nce stava d’into, truvajene sulo ‘na pòvera gialla, comm’’a ccennèra. Tiempo doppo, se dicette ca chella pòvera, c’avevano pigliato p’’e ccennèra, ‘nvece era oro…, oro ffino…, ma chille però nun l’avevano capito e l’avevano ghittate, sparpaglianno tutto miez’’o turreno…!
L’anne passavano e ‘sta pianta faceva sempre pochi frutti, carevano sempe ambressa e nisciuno riusceva a fa’ ‘e piennule.
Quarcuno dint’a l’autunno raccoglieva pure ‘e foglie ‘a terra, pecchè dicevano che curavano cierti malatie d’'e viecche e d’'e giuvane…
Turillo, ogni tanto ca passava mmiez’’a chella terra, ‘o pensiero suojo era sempe chillo 'e ghi’ a vede’ 'sta pianta comme stava. Era po’ sempe curiuso ‘e guardà dint’’a "scafongia" se ‘nce steva quarcosa annascuso…, ma niente, quacche vota però n’asceva ‘na lucertolella…
Sta pianta, pure se era sturpiata p’’a vvicchiaja, puteva campà ancora pe’ tanta secule; era accussì attaccata ‘a vita, ca pure se teneva meza corteccia cunsumata, cu ‘o vacante mmiezo, era viva e campava sulo cu ‘nu parme ‘e scorza ‘e lato, ma pe’ chillu tanto ca bastava pe’ purta’ nutrimento ‘a cimma soja ‘e ncoppa!
Turillo ‘nu ghiorno, pensanno ca ‘o viento o ‘na tempesta putesse schiantare ‘a pianta, ‘nce attaccaje ‘nu tirante d’‘e acciaro, pe’ ‘a tene’ tirata e ferma, ‘o lato d’’o punto debole…
E accussì facenne se sentiva cchiù sicuro.., ma ‘stu guaglione, ca s’era fatto già grussiciello, nun aveva fatto ‘o cunto ca ‘o nemico ‘e sta pianta era ‘e n’ata specie: nun erano tempeste e sfuriate ‘e viento, ma era chillu “male” ca se chiamma “prugresso”: nu “male” brutto e ‘ncurabile assaje, ca se magna ‘e campagne, cu ‘e sciure e cu ll’àrbere e porta sulo distruzione e malaciorta addo isso passa!
‘O Guaglione, mentre cresceva, accuminciava ‘a sentere sta minaccia avvicinarse sempe ‘e cchiu’, pecché, comme careno è bombe dint’a ‘na guerra, sempe cchiù vicine, propritamente accussì ‘o rummore ‘e 'stà minaccia s’avvicinava sempe ‘e cchiu’…!
Turillo accuminciava a pensa’ ca era già tutto destinato e che ‘sta pianta ‘e Sòvera eva murì priesto, nzieme ‘a terra soja...!
‘Nu ghiorno ‘sta pianta seculare, ca era stata sempe ‘o stesso e nun aveva mai fatte rampule nove, cacciaje ‘nu figliulillo ‘e latte ‘a dint’’e radeche…

....Ll’omme nun sanne, ca ‘e piante teneno ‘nu core e arragionano meglio ‘e lloro, e esse sanno pure ‘ntiempo quann’è arrivata ‘a fine loro…!!

Turillo rimmanette senza parole pe’ sta nuvità, ne parlaje cu ‘o pate, e accussì decidette 'e farlo crescere pe’ n’at'anno, fino a vierno.
‘O guaglione aveva capito ‘o messaggio ca ll’aveva mannato ‘a pianta ‘e Sòvera: ‘A pianta vuleva cuntinua’ a campà, e sapenno ca nun era possibile pe’ essa stessa, aveva pensato ‘e lascià ‘nu figlio suojo, ‘a fa’ crescere ‘a Turillo!
Accussi dint’’a vierno ‘o guaglione sceppaje ‘stu frustillo, ca era fino fino, duppio quanne a ‘nu retillo d''a mano, e sotto a isso teneva ‘nu capillo pe’ radechèlla… Turillo, senza ‘nce penza’ ‘ncoppa, atterraje ‘sta mazzarella d’into ‘o ciardino ca teneva vicina ‘a casa; dint’a chillo ca era ‘o posto cchiù sicuro e arreparato... 
Dint’’a primmavera appriesso ‘sta mazzarella ‘e Sòvera, cacciaje poche buttune ‘e foglie…
Ma doppo n’anno ‘e vita, se seccaje ‘a cimma. Turillo pensaie subbeto che era morta…! Po’ dicette: "nun ‘a scippo ancora, mo ‘a pòta e vedimmo che succère…"
E, infatti, tenette raggione, pecché dint’a chella pprimmavera ca venette appriesso, ‘sta pianticella se vestette n’ata vota ‘e ffronne, e accumenciaje a crescere chianu chianu.
Passajene n’atu pare d’anne, e chillu presentimento c’aveva tenuto ’a pianta ‘e Sòvera, s’appresentaje senza pietà...!
Sappresentaje ‘nu mostro, cu “pale meccaniche”, “ruspe” e “motoseghe”, e tutt’‘a putenza e ’a malignità ca l’ommo caccia, cu a scusa d’’o prugresso e d’’o benessere ‘e l’atre…! E accussì ghittaje ‘nterra, ‘mbaranza, tutte l’àrbere ‘e chella bella campagna…, accerennole!!
Turillo nun vulette abbanduna’ l’àrbere suoje mentre carevano muorte, comme fa ‘nu figlio vicino ‘o llietto ‘e ‘nu pate o ‘na mamma ca ‘sta murenne... E vedenn’‘a piante soja ‘e Sòvera ‘nterra senza vita, chiagneva, chiagneva disperato, chiagneva comm’’a ‘nu criaturiello…!!
Turillo s’era fatto grusso, e ll’àrbero ‘e Sòvera (figlio) era crisciuto e s’era fatto sempe cchiù gruosso. L’anne passavano e ‘sta pianta cresceva sulamente, ma nun faceva maje ‘nu sciore, mai ‘na Sòvera…
Addivinataje n’àrbero assaje gruosso!
Turillo parlava spisso cu ‘o pate e ‘sta cosa strana, e lo diceva:… “Pa’, ma forse è servatica ‘sta pianta, visto ca nun fa maje Sòvere?” E po’: “Pure se l’avessa ‘nzertà, add’’a piglio n’ata Sòvera? Cca attuorno, oramaje, campagne nun nce stanno cchiù… !?
Responneva ‘o pate: ”Turì, tu nun ‘o saje, pecché sì giovane, ma l’àrbero ‘e Sòvera, pe’ caccià ‘e Sòvere, s’adda fa viecchio, ma viecchio assaje…, si no’ è Sòvere nun è fa maje…!!
Doppo quarche anno, Turillo chiagnette n’ata vota, pe’ n’ato dulore forte assaje, pecchè ‘o pate murette e ‘o lasciaje a isso sulo…!
Ancora affranto p’’o dispiacere avuto, ‘o ggiovane l’anno appriesso pensaje ‘e taglià ‘a pianta. Diceva: “Ma ca me serve ‘sta pianta ca nun fa Sòvere, ma fa sulamente ombra e, po’, ‘nu sacco ‘e fronne…?!”. Pero’ nun tenette ‘o curaggio d’’o fa...! Allora pensaje: “Mo faccio passà n’at’anno ‘e tiempo, taglio sulamente quarche rampulo ‘e vascio, e vedimmo ca succère...
Dint’’a chella primmavera, mentre ‘a pianta cacciava ‘e fronne nove, n’abbondanza n’ata vota, Turillo vedette ‘na cosa strana dint’'e rampule: ‘nce stavano llà ‘ncoppo cierte pampuglie ‘e ‘nu culore ghianco e rrosa… ma belle assaje!!
Turillo nun l’aveva maje viste fino ‘a tanno, ma chille erano ‘e sciure d’’a Sorvera, ca erano schiuppate p’’a primma vota!
E accussì chill’anno Turillo magnaje p’‘a primma vota ‘e Sòvere nove ‘e l’àrbero figlio d’’a Sòvera accisa... E accussì, ogn’anno, ‘n'abbondanza…! 
Da tanno, decidette ‘e nun taglià cchiù l’àrbero, ma d’’o tenè pe’ sempe, pe’ ricordo: d’'a terra, d’'a Sòvera vecchia e d’’o pate, ca nun ce stavano cchiù!
 
Chestà ‘e a storia d’a pianta ‘e Sòvera ca nun vuleva murì, ma vuleva campà…!
Ll’àrbere tenene ‘nu core e vonno campa’ pe’ sempe cu ll’ommo! Ll’ommo ‘e surdo e chistu messaggio nun l’ha capito ancora!
 
O’ cunto è furnuto, loro stanno lla’ e nuje stamme cca!
Salvatore Fioretto
 
Il "Cunto" è stato liberamente tratto da una storia realmente accaduta. Tutti i diritti di pubblicazione sono riservati all'autore.


sabato 23 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: le Masserie (seconda parte)

Per descrivere una masseria che sia rappresentativa di tutte quelle che un tempo esistevano nel territorio, ne ricorderemo una che è sopravvissuta fino ai primi mesi del 2002, la masseria “Torre Gualtieri” nel tenimento chiamato "Marchesa di Rutigliano" situata a Piscinola, nell'antica via omonima, oggi via Vecchia Miano.

Veduta della masseria Torre Gualtieri e campagna del suo tenimento Marchesa di Rutigliano, 1995

L’ubicazione

Questa masseria, sicuramente risalente al XVII secolo, riportata nelle mappe e nei documenti più antichi, era situata in Via Vecchia Miano (abbascio Miano). Essa faceva parte di un esteso fondo agricolo che era denominato “Tenimento Marchesa di Rutigliano” (o Rovigliano). Forse per tale motivo la Via Vecchia Miano, nel tratto in questione, un tempo era denominata “Via Rovigliano”.
Questo complesso architettonico costituiva, come si evidenzia nelle mappe, l’unica opera ubicata al di fuori del perimetro dell’edificato storico di Piscinola, ossia l’edificato compreso tra Via Pagliano (Vico degli Operai) e Via Vecchia Miano.

Foto in una masseria di Piscinola, di Giovanni De Stefano

La struttura architettonica e gli spazi esterni
La masseria “Torre Gualtieri” aveva una poderosa struttura difensiva, infatti era dotata di una cortina di mura molto alta e aveva l’ingresso molto caratteristico, perché anch’esso di tipo fortificato, con un massiccio portone di legno a due battenti, incastonato in uno dei due enormi archi a tutto sesto ivi presenti.
La struttura d’ingresso rappresentava la parte più alta e monolitica del complesso architettonico, quasi a simboleggiare una specie di torre d’avvistamento e di difesa. Ad essa si accedeva direttamente dalla strada, attraverso una breve rampa che raggiungeva un terrapieno in tufo alquanto alto.
Notiamo nel territorio circostante Piscinola altre strutture simili alla nostra, come la masseria di S. Giovanni, nella quale è presente una struttura d’ingresso anch’essa a forma di torre, con un portale altissimo a sesto acuto e con due belle volte “a crociera”. Altro esempio è la masseria “Torricelli” di Mugnano, costruita attorno ad un mausoleo cinerario romano a forma di torre, da cui deriva sicuramente il suo nome.
La struttura architettonica della masseria “Torre Gualtieri” appariva alquanto disomogenea, per i diversi volumi degli edifici che la componevano. Alcuni di essi si mostravano come aggiunti un po’ alla rinfusa al “corpo” centrale d’ingresso.
Il resto dei fabbricati erano disposti “a corte”, attorno ad uno spazio centrale, chiamato “aire” e comprendeva una serie di servizi comuni, tra i quali: il bagno, il forno, il pozzo, una o più stalle per il bestiame e il relativo fienile, chiamato “mezzaniello”.
La masseria, poi, aveva diversi giardini (con alberi di fichi, legnasante (cachi), limoni ed aranci) e le attrezzature utilizzate per la pulizia e per il confezionamento delle noci e per la produzione del vino.

Masseria Torre Gualtieri, arco d'ingresso fortificato, via V. Miano, 2000

L’utilizzo degli ambienti coperti
Le stalle erano in muratura e suddivise in varie zone. La parte destinata agli equini (asini, muli e cavalli) era più angusta, perché meno frequentata, mentre quella destinata alle mucche ed agli ovini era più ampia, per permettere la relativa mungitura.
Il maiale era allevato all’interno di recinti coperti, non necessariamante dentro le stalle.
Lo sterco degli animali (strame) era raccolto nelle stalle e trasportato nei campi, mediante carri, detti “carrette” o “riroti”, trainati da muli o cavalli.
Il vino era contenuto in botti, sistemate all’interno di locali sotterranei abbastanza profondi e bui (‘e rotte). Vicino al locale chiamato “basso” (vascio), era presente, poi, un grosso locale chiuso, tipo deposito, destinato ad immagazzinare i prodotti della campagna, prima che venissero trasportati al mercato.

Le abitazioni dei contadini
Le abitazioni si componevano di locali disposti su due livelli.
Il “basso” (vascio) si componeva di una grossa camera, posta al piano terra, corredata di un camino “a campana”, da un lato e da un piccolo locale interno destinato alla cucina. Nella cucina i fornelli erano realizzati in muratura e acciaio e venivano alimentati con legna: quasi sempre avanzi di potatura. Le pentole grandi (caurare) erano collocate in un foro circolare, realizzato dentro il piano di pietra. Questo foro formava, attraverso un cerchio di ferro battuto, una sorta di incastro per la pentola. Le pentole piccole e le padelle si appoggiavano, invece, sopra a dei piatti di acciaio, realizzati mediante anelli concentrici, di ferro battuto, che si incastravano uno dentro l’altro. Sotto queste strutture erano presenti delle camerette, nelle quali si introduceva la legna e si poteva “soffiare” sul fuoco, con un apposito ventaglio composto da vimini e varie fibre.

Interno Masseria, vista dell'"Aire" e pietra per lavorare il lino, 1971
Ad una parete della cucina era collocata una rastrelliera in legno, sopra la quale veniva “esposto” tutto il pentolame di rame, portato in dote dalle donne.

I mobili erano pochi, di manifattura semplice, composti per il “basso” da una credenza o “cristalliera”, utilizzate per il contenimento delle suppellettili, da una grossa tavola in legno e da alcune sedie impagliate; mentre nella camera del piano superiore c’era un armadio, un letto con spalliere in ottone o ferro e un comò del tipo “segreter”.
I materassi erano realizzati con sacchi di canapa riempiti di “stuglie” di granoturco. Le stuglie venivano cambiate ogni anno.
Il bagno era minuscolo, spesso pensile, come in questo esempio, ricavato “a sbalzo” sul corpo di fabbrica, mentre, era consueto che si utilizzassero vasi da notte o pitali, che durante il giorno erano conservati nei comodini ai lati del letto.
Il riscaldamento degli ambienti della “zona giorno” era molto semplice e consisteva nell’accendere il fuoco nel camino. Nelle strutture più antiche il camino era costruito rigorosamente a forma di campana e nel suo interno conteneva due sedili di pietra contrapposti, che permettevano a due persone di sedersi e dialogare.

    Masseria Torre Gualtieri, dalla campagna del suo tenimento, 1995

Negli ambienti dove non si disponeva del camino, si utilizzava un braciere di rame, bruciando della carbonella (vrasiero cu’ ‘e gravunelle). Il braciere si collocava su un supporto di legno o di ferro, sul quale si potevano appoggiare i piedi. Per “attizzare” il carbone si disponeva anche di una palettina in rame o di ferro.

Nelle camere da letto (‘a cammera) si usava lo “scarfalietto”, ossia una sorta di padella in rame, nel quale si poneva del carbone acceso. Lo “scarfalietto” era posizionato sotto le coperte prima di andare a dormire, dentro ad un distanziatore chiamato “monaco”. Quest’ultimo era una sorta di navicella realizzata in doghe di legno e serviva ad alzare le coperte, per non farle stare in contatto con le pareti roventi dello “scarfalietto”. D’inverno gli indumenti e gli altri panni erano messi ad asciugare sopra il braciere, utilizzando una specie di cupola, fatta anch’essa di listelli di legno; mentre durante le giornate assolate gli indumenti venivano esposti (spasi) al sole, nell’”aire”.

   Masseria Torre Gualtieri dalla campagna del suo tenimento, 2000

I momenti di vita comune
I momenti di aggregazione nelle masserie coincidevano con l’utilizzo delle strutture comuni, come il pozzo, il forno e l’aire.
Il forno era adoperato durante i fine settimana, per la cottura del pane e durante le feste dell’anno, per la cottura di dolci e dei piatti rustici locali.

Altro momento di unione degli abitanti della masseria era la lavorazione del granoturco che avveniva a fine estate. Anziani, giovani, donne e bambini la sera si disponevano a formare un grande cerchio, intorno a covoni di mais e procedevano, dapprima, all’asportazione delle “stuglie” esterne delle spighe e, poi, all’asportazione dei chicchi, aiutandosi con utensili appuntiti (chiamati spuntoni).
L’evento era accompagnato dal racconto di aneddoti e ricordi da parte degli anziani. Le pannocchie migliori (‘e spighe ‘e graurine) venivano selezionate per la semina dell’anno successivo ed erano conservate sotto gli androni o volte, appese a forma di grappoli, insieme a “pennoli” di pomodori, sorbe (sovere), cachi (legnasante) e meloni (mullune ‘e pane).

   Scorcio della Masseria vista dalla stradina detta "Carrara", 2000

L’”aria” (detta anche aire) era utilizzata per eseguire l’essiccazione delle derrate agricole prodotte nella campagna. Essa veniva anche utilizzata per bacchiare i cereali ed i legumi e, ancora, per svolgere le attività domestiche e ludiche. Di questo spazio e delle lavorazioni che in esso si eseguivano, daremo un’ampia descrizione nei post futuri.
Negli spazi aperti della masseria era solito assistere al razzolare del pollame, insieme ad anatre ed oche. Spesso, come in primavera, le chiocce portavano in giro i pulcini appena nati.
Il pozzo non era altro che una grossa cisterna interrata in tufo, destinata al contenimento dell’acqua piovana raccolta dai tetti degli edifici, convogliata in esso attraverso una serie di canalizzazioni. L’acqua veniva poi prelevata mediante un secchio legato ad una corda di canapa, attraverso un “mulinello” in legno (Tròciola). L’acqua raccolta dal pozzo era riservato agli usi domestici e per abbeverare il bestiame.
Altra struttura comune era una grossa pietra vesuviana che era presente al centro della masseria. Questa era una grossa pietra lavica, con la superficie a vista ben levigata e veniva utilizzata dalle donne e dalle ragazze per la lavorazione del lino occorrente per realizzare la dote per le nozze.

Una giornata trascorsa in masseria…
Come è logico pensare, la vita nella masseria si svolgeva nel corso della giornata in ambienti diversi, con l’interessamento anche delle campagne ad essa collegate. Durante il giorno, si frequentavano i locali e le zone, poste ai piani bassi della masseria (‘o vascio), mentre, di notte, si era soliti abitare nelle camere poste ai piani superiori (‘a cammera). La sveglia per tutti gli abitanti era fissata di buon mattino, al primo canto del gallo, ossia intorno alle quattro. Occorreva per prima cosa mungere le mucche e, poi, a seguire, pulire e governare tutti gli altri animali presenti nella stalla. 

Masseria Torre Gualtieri, dal lato della via V. Miano a Piscinola, 2000

Alle prime luci dell’alba gli uomini si recavano nei campi per eseguire le attività agricole, mentre le donne si dedicavano alla cura della casa e alla preparazione del pranzo. Intorno a mezzogiorno si faceva un pranzo frugale, consumato sul posto di lavoro.
Le donne trasportavano in grosse zuppiere avvolte in un panno, detto “muccaturo”, un unico pasto destinato ad alimentare tutti gli addetti ai lavori. Il vino, naturalmente, durante e dopo il pasto non doveva mancare mai ed era trasportato in “mummare” di terracotta o in fiaschi impagliati. Non si faceva uso di bicchieri.
Si continuava poi a lavorare fino all’imbrunirne. Le donne preparavano la cena e si dedicavano alle attività secondarie, come al ricamo, oppure alla preparazione delle conserve. Quando gli uomini ritornavano dai campi, si eseguiva la seconda mungitura delle mucche e si governava di nuovo gli animali con fieno e graniglie varie.
Al termine dei lavori, i contadini rincasavano nei “bassi” e si sedevano accanto ai focolari aspettando la cena. La cena era costituita quasi sempre da minestre, oppure da ortaggi vari, cucinati in maniera semplice, posti in un’unica zuppiera ed “esposta” alle posate di tutti i familiari. Al termine del pasto, i vecchi raccontavano alcuni racconti ai bambini seduti attorno al focolare scoppiettante e si andava presto a dormire.

Foto di famiglia nella masseria "Renza 'e Vascio", foto di Ferdinando Kaiser

Le unità di misura adoperate nella società agricola di un tempo
Le unità di misura adoperate nel mondo rurale hanno origini antichissime e variavano sensibilmente in rapporto al territorio. Citiamo quelle più utilizzate nella nostra zona e, quindi, nel nostro esempio citato:
Misure di superfici:
1 moggio (aversano) detto “mojo”     3.364 m2, ossia 0,3364 ettari
1 “quarta di terra”                               336 m2
Misure di capacità:
1 “tummolo"    (misura di granaglie) 0,54 ettolitri, ossia 54  kg ca.
1 “votta”                                             500 litri circa
1 “mezza votta”                                  250 litri circa
1 “carrato”                                          308 litri circa
1 “varrile”                                           44 litri circa
1 “carratiello”                                      35 litri circa
1 “quartarulo”                                     11 litri circa.

Foto dei ruderi della Masseria, in fase di demolizione, marzo 2002

Purtroppo l’antica masseria “Torre Gualtieri” nel tenimento "Marchesa di Rutigliano" di Piscinola, è stata miserevolmente abbattuta nella primavera del 2002, per far posto ad un “piccolo e oscurato” giardino pubblico, ancora senza nome, progettato e realizzato nell’ambito del “programma di ricostruzione del dopo terremoto”.

Forse l'utilizzo dell'antica struttura poteva essere più utile per la comunità e soprattutto più nobile per la sua storia, se finalizzato alla conservazione e alla realizzazione di un "Museo stabile della tradizione contadina del territorio", come è stato fatto a San Pietro a Patierno nella "Masseria Luce", oppure come si propose nella mostra estemporanea dell'anno 2004, di realizzare un "Museo del ricordo di Piscinola-Marianella". 
Masseria Torre Gualtieri nella mappa dell''800 di Piscinola
Purtroppo questo progetto, tutt'oggi, è stato sempre trascurato e disatteso da parte di tutti...

Il contenuto del presente post è stato completamente tratto dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore. Una terra, la sua gente, le sue tradizione", di S. Fioretto, ed. The Boopen, 2010.

Per questioni di spazio del blog, seguirà una "terza parte" del post, con il continuo dell'elenco delle masserie esistenti nel territorio e tante altre foto.
Salvatore Fioretto

 

Bozzetto allegorico di Piscinola, composizione grafica di S. Fioretto