venerdì 6 settembre 2024

Fatti di cronaca tra binari e treni della ferrovia Piedimonte d'Alife....

La gloriosa ferrovia "Napoli Piedimonte d'Alife" non è stata solo una ferrovia romantica e
paesaggistica, con ricordi di viaggi sereni e gaie scampagnate raccontati dai suoi viaggiatori, e con spaccati di storia vissuti, come quelli già pubblicati in questo blog, legati al ritorno della libertà dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, ma ha registrato anche degli episodi di "cronaca nera", come questi due casi che abbiamo scelto di raccontare, avvenuti nel primo ventennio di esercizio della ferrovia: praticamente un secolo fa...; questo perchè essa faceva parte integrante di una realtà vissuta da uomini di ogni estrazione e disciplina sociale. Ecco i racconti estratti dai quotidiani o periodici dell'epoca.


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Dal giornale: ”Il Mezzogiorno” , mercoledì 29 maggio 1923 Ultima edizione. Anno VI – num. 125. Cronaca di Napoli 20-30 maggio 1923

"Dopo lo scandalo alla Piedimonte d’Alife

L’Arresto del direttore ing. D. S.
I lettori ricorderanno gli avvenimenti della Ferrovia secondaria Piedimonte d’Alife alla fine di marzo ultimo.
A seguito di parecchie denunzie pervenute sul conto del direttore ing. Mattia D. S., il Ministero dei Lavori Pubblici ordinava una prima inchiesta e, poi, una seconda. Quest’ultima era affidata al comm. Senise il quale rilevava che la responsabilità di cui si faceva carico al direttore della tranvia non erano precisabili perché buona parte dei registri e documenti contabili come affermava il Direttore stesso trovavansi presso la sede centrale della Società a Parigi.

Contemporaneamente si acuiva il dissidio tra il D. S. e le organizzazioni del personale della Piedimonte e, nello stesso tempo che il S. eseguiva l’inchiesta una vivace campagna di stampa veniva fatta contro il Direttore dell’esercizio.
Ma ecco che, ai principi dell’aprile scorso, un improvviso colpo di scena provocava la sostituzione del D. S. dalla carica di direttore di Esercizio.
Gli iscritti al Fascio del personale della Piedimonte informavano la p.s. che i registri e i documenti di cui si parlava S. non si trovavano affatto alla sede centrale della Società a Parigi ma negli scantinati della Direzione napoletana al Palazzo Salsi in Piazza Reclusorio.
La p.s. coadiuvata dai fasci operava una sorpresa nella Direzione e rinveniva i famosi registri negli scantinati del Palazzo Salsi.
A seguito di questa sensazionale scoperta si riuniva di urgenza il consiglio di amministrazione e il D. S. veniva rimosso dall’ufficio, Contemporaneamente il D. S., temendo un eventuale mandato di cattura, scompariva dalla sua abitazione.
Registri e documentazione venivano, intanto inviati alla autorità giudiziaria, unitamente agli altri atti.
Dopo lungo esame essendo risultate fondate le accuse a carico del Direttore della Piedimonte d’Alife” per malversazioni e cattiva amministrazione, veniva nei giorni scorsi spiccato mandato di cattura contro il D. S.
Ieri mattina, verso le 7,30 l’ing. D. S. veniva tratto in arresto in via Museo dai commissari Capurso e Maiatico.
L’ing. De Sares era inviato direttamente a carcere di Poggioreale. Oggi il D. S. sarà interrogato dal giudice istruttore cav. Novelli.    Re"
 


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Da “L’eloquenza”

Antologia critica - cronaca

Anno VI - 15 agosto 1916 (pag. 198 - 200),  Roma – via Calamatta, 16

Piazza Carlo III, a dx la fiancata di convoglio del treno in partenza
Un feroce assassinio. – Il mattino del 31 dicembre 1914, sulla linea ferroviaria Napoli Piedimonte d’Alife, dal guidatore del primo treno in partenza da Napoli, fu scorta nei pressi di Capodichino una massa informe. Arrestato il treno, il macchinista e gli altri del treno rinvennero sul binario deposto in modo che il collo era poggiato sulla rotaia – il cadavere di uno sconosciuto che presentava numerose ferite, fra cui due gravissime di coltello alla gola, che quasi avevano staccata la testa dal busto.
Procedutosi dalle autorità alla ricognizione del cadavere, esso fu identificato per quello del giovane capraio Vincenzo R., scomparso da tre giorni, e di cui, nonostante le indagini più febbrili disposte dalla Questura di Napoli, non era stato possibile scoprire alcuna traccia.
Vincenzo R. – un giovane di 26 anni – era stato allevato in casa del capraio Francesco T. fin dalla tenera età.
Più volte, sia per il richiamo sotto le armi, sia per migliorare le sue condizioni, aveva abbandonato il T., ma sempre poi aveva fatto ritorno presso il suo antico padrone.
Il mattino del 28 dicembre come al solito s’era recato in campagna con tutti della famiglia T. per il pascolo delle capre. Col carretto, insieme col piccolo Vincenzo T., egli aveva preceduto a Capodichino Francesco T., che con i figli Salvatore, Giovanni e Luigi, l’aveva seguito con le capre. Da quel momento nessuna notizia si ebbe di lui.
La sera del 28 dicembre, tornarono dal pascolo Francesco T. e di figli senza il R.
Dissero – specie Salvatore ed il piccolo Vincenzo – che R. verso mezzogiorno s’era allontanato dal pascolo col pretesto di un bisogno e non aveva fatto più ritorno. Che essi, impensieriti di questa assenza, l’avevano atteso a lungo ed invano. Si recarono in casa dei fratelli e delle sorelle del R. per chiedere se avessero notizie di lui, dicendo tutte le loro apprensioni per quell’assenza prolungata. I fratelli di R., nonostante che fosse tardi, vollero recarsi in campagna – sul posto del pascolo – per vedere se vi fossero tracce del R., ed i Tufano li accompagnarono. Poiché tutte le ricerche furono vane, così, il giorno dopo si recarono in Questura ove denunciarono la scomparsa del fratello, ed in un esposto denunciarono i loro sospetti che il fratello fosse stato vittima di un delitto da parte dei T., famiglia di pericolosi delinquenti, di cui il padre aveva tutto un triste passato di delitti, ed i cui figliuoli seguivano le tristi orme paterne, specie il Luigi T., che negli ultimi tre mesi aveva riportate ben quattro imputazioni di mancato omicidio. Contemporaneamente Francesco T. denunciava al Commissariato di San Carlo all’Arena la scomparsa del suo garzone R.
Iniziatesi le indagini, gli agenti della Questura assodarono che il giorno 28 verso le 11 ½ uno dei figli di Francesco T. s’era recato dalla colona R. – i T. avevano fittati un tino con l’acqua dicendo che occorreva per far bere le capre. Questo fatto ingegnò il sospetto che l’acqua fosse servita per fare scomparire le tracce di sangue di cui gli aggressori del R. avevano dovuto macchiarsi.
Piazza Carlo III, parco binari della stazione terminale dall'alto
Procedendosi ancora nelle ricerche, il giorno dopo gli agenti trovarono nel fondo di un burrone un fazzoletto intriso di sangue, che dai parenti del R. fu riconosciuto per quello che il mattino del 28 lo sventurato giovane aveva legato al collo. Contemporaneamente giungeva notizia del rinvenimento del cadavere sulla Napoli – Piedimonte d’Alife.
Arrestai tutti quanti i T. essi si chiusero nel silenzio più assoluto, ma poi ma poi cominciarono ad accusarsi reciprocamente, finché Salvatore confessò di aver ucciso da solo, per gelosia di donne. Ma contro questa dichiarazione vi era l’esame necroscopico: sul cadavere erano state trovate cinque ferite prodotte da bastone, due gravissime ferite di coltello alla gola e tre escoriazioni prodotte da unghie. A ciò si aggiunga che il R. era molto più forte del T., donde si traeva la logica conseguenza che più persone avevano partecipato alla strage.
A ciò si aggiunse un’interpretazione del fatto, data dalla famiglia del morto, che rovesciava ogni tesi difensiva. Si assumeva infatti, che essendo sorti degli attriti tra il R. ed i giovani T., il padre di costoro, temendo che il garzone, per vendicarsi, potesse rilevare gesta criminose rimaste ignote alla Pubblica sicurezza ne decise la soppressione.
Il padre e tutti i figliuoli furono rinviati a giudizio per rispondere di omicidio premeditato.
Il dibattimento si svolse innanzi alla Corte ordinaria di assise, presieduta da quel valoroso magistrato che è il barone Carelli. Per la parte civile discusse Corso Bovio, il figliuolo del grande filosofo. Corso Bovio è un semplice ed arguto parlatore, che molte volte ha grandi efficacia. Egli è un avvocato che non fa subita alcuna deformazione professionale, ignora ogni mezzuccio, conosce unicamente l’espressione libera ed audace del suo pensiero.
Piazza Carlo III, convogli davanti alla stazione terminale
Frequentemente ha come degli atteggiamenti d’indifferenza alle finalità ultime della sua opera difensionale; par quasi come se dicesse ai giudici: “io ho compiuto il mio dovere e sto a posto con la mia coscienza, cercate ora di compiere il vostro, perché se non lo fate, peggio per voi, che commetterete una cattiva azione.
In una cattiva causa è perciò un pesce fuor d’acqua, perché egli non concepisce una dissonanza tra quello che dice e quello che pensa: è certo la singolare rettitudine del suo genitore che parla in lui.
Prese la parola il Procuratore generale Mastrovalerio: il processo aveva riflessi d’una tragicità impressionante: sgozzato miseramente lo sventurato R. era stato lasciato tre giorni in un campo, e mentre si disfaceva e i roditori lo distruggevano, i suoi uccisori avevano la baldanza di unirsi nelle ricerche ai parenti sconsolati, di denunciare il fatto all’autorità giudiziaria e tre giorni dopo cinicamente trasportavano il cadavere mezzo rosicchiato, in stato di avanzata putrefazione, sul binario della Piedimonte. Questi elementi seppe sfruttare in un forte esordio il Mastrovalerio per dipingere foscamente il delitto e venire poi a scagliare la catapulta formidabile delle sue argomentazioni principalmente, contro il padre ch’eccepiva un impressionante alibi. Ma egli ebbe un avversario degno di lui: Francesco T. fu difeso da quel dialettico potente ch’è l’on. Enrico De Nicola che seppe contrapporre argomento ad argomento, riuscendo, malgrado le ombre oscure che si proiettavano sul suo difeso, a strappare un verdetto negativo.
Salvatore, Giovanni e Luigi furono difesi da Umberto Ricciuti, Carlo Fiorante e Giovanni Porzio.
Umberto Ricciuti cercò con abilità, con la sua signorile eloquenza, di diminuire la impressione che l’atrocità del delitto suscitava, cercando di dimostrare ch’esso era frutto di un’esplosione di delinquenza minorile, i cui eccessi sono piuttosto espressione di incompleto sviluppo psichico che di perfidia.
Giovanni P. e Carlo F. lottarono strenuamente per sostenere la versione di Giovanni, e per dare al delitto il carattere d’omicidio improvviso, ma la fortuna non coronò i loro sforzi e i tre giovani furono riconosciuti responsabili di omicidio premeditato e, data la loro minore età, furono condannati a 20 anni di reclusione ciascuno.  E. A."

(Nota. Abbiamo omesso di riportare i cognomi dei personaggi coinvolti nei casi raccontati).

Salvatore Fioretto 

 

Piazza Carlo III, incrocio con corso Garibaldi. Nella nella parte a destra della foto, il convoglio della Piedimonte d'Alife in transito (anni '20 circa)

 

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