Nei tanti racconti su Piscinola di un tempo, più volte è stato menzionato il "Barone", personaggio che è passato nell'inventario collettivo per la sua forza straordinaria, ma anche per la sua bontà d'animo. Per raccontare questo particolare personaggio siamo ricorsi questa volta al bel libro scritto dall'amico Luigi Sica, "Il Borgo Perduto", edito da "Marotta&Cafiero" nell'anno 2013.
Ecco il brano.
"Nonostante l’improprio titolo
nobiliare, o’ barone era un
poveraccio, che non aveva un lavoro o un mestiere. La moglie o compagna era
Migne Migne, una donna bruttissima, magra, bassa di statura con capelli crespi
e mai pettinati che non parlava mai. Pare che avesse una sorella ma non ne sono
sicuro perché l’ho visto sempre solo, timido se non vergognoso, di poche
parole, molto schivo. Era un uomo di media statura ma di corporatura possente,
aveva un volto brutto, dai tratti
marcati: da ominide che la voce cavernosa rendeva troglodita. Sia d’inverno sia d’estate andava sempre in giro con
un pesante cappotto. Veniva da o’cap’e’coppa,
ma non ho mai saputo, dove abitasse precisamente, i più informati dicevano che
vivesse in un sottoscala; negli orari di bassa affluenza lo intravedevo
mangiare qualche piatto di minestra nella cantina di don Lurenzo o in quella dei Sarnacchiaro. Sicuramente
si guadagnava da vivere eseguendo lavori saltuari che richiedevano un’enorme
forza fisica, infatti, ogni qualvolta c’era da scaricare sacchi di sale da un
quintale ciascuno, miracolosamente appariva o’ Barone e mentre i facchini s’affannavano in due o tre per
scaricare quei sacchi dal carro, il nostro li agguantava, li trascinava sul bordo di scarico, si girava
lentamente e senza sforzo apparente caricava il sacco in spalla, entrava in
tabaccheria e depositava il sacco sull’apposita pedana di legno e ripeteva l’operazione
quattro o cinque volte. Mio padre gli dava un pacchetto
di Alfa e con discrezione gli metteva una carta da cinque lire in tasca; altre
volte don Lurenzo gli faceva lavare
le botti da trecento litri, 'o barone le spingeva sulle guide dal piano
interrato a quello stradale, le portava fuori, le riempiva d’acqua per metà e
facendole beccheggiare procedeva a diversi lavaggi sino a quando non ne
fuoriusciva acqua limpida.
Donna Nunziatina gli faceva scaricare i carri di
sacchi di farina e la legna per il forno e quello dei legumi e così faceva
anche Eugenio Ercolano, probabilmente o’ barone si guadagnava da vivere
eseguendo questi lavori saltuari per tutti i commercianti che glieli affidavano
proprio per non mortificarne la dignità.
Più
di tutto m’impressionava la sua profonda solitudine, raramente lo vedevo
parlare con qualcuno e quando lo faceva, lo
interpretavo come signorilità trovandogli confacente quel titolo nobiliare. La
prematura morte di Migne Migne lo rese ancora più solo e taciturno tanto da
indurmi a pensare che se due persone brutte possano trovarsi reciprocamente
gradevoli, per una sola la bruttezza della solitudine dev’essere insopportabile.
Molto tempo dopo seppi che era morto, lasciando nel suo materasso
un’incredibile quantità di soldi. M'addolorò non tanto l’epilogo, ma quella sua vita da eremita, mi turbava il pensiero che
l’avesse vissuta interamente come figlio di un dio minore, condannato a pagare
pegno per quella bruttezza fisica che celava una nobiltà d’animo, una
delicatezza d’educazione: sembrerà un eufemismo ma era veramente una bella
persona. Ancora oggi, quando ripenso alla persona del barone, mi chiedo
se riuscirò mai a immaginare di quanto amore avrà amato la sua Migne Migne, con
quanta pena sarà stato forse segretamente innamorato di un’altra donna, quanta
sofferenza nella non corresponsione. Mi chiedo se dopo la scomparsa della compagna è mai
più stato con un’altra donna, magari anche con una puttana.
Da quando ho saputo che è sepolto nell’ossario comunale del cimitero di Miano, non
manco mai di rivolgergli un saluto e di ricordare con quanta dignità si può
vivere e con quanta spontaneità si lascia un buon ricordo; mi consolo pensando
che là, in quella terra nera avrà ritrovato la sua Migne Migne e con altri
poveri sfortunati, la sua pace. Quando ho raccontato questo fatterello a
qualche amico, ha ironizzato dicendo: "ma
come un barone nella fossa comunale", non ha colto lo spirito del mio
piccolo racconto ed io ho respinto la sua stupida ironia, ma gli ho
risposto che per lasciare imperitura memoria della polvere che saremo, basta
solo un po’ di dignità e un pizzico d’umanità."
Di Luigi Sica
(Racconto integralmente tratto dal libro: "Il Borgo Perduto - Storia di una via Gluk napoletana", Marotta & Cafiero Editori, anno 2013 - pagg.72-74.)
Toccante questo racconto di vita di Luigi. Convengo con lui che la solitudine è il male peggiore cui un uomo possa sopportare, specialmente se è una solitudine imposta.
RispondiEliminaInfatti, la solitudine è il male sociale più grave dei nostri tempi. Grazie Carmine.
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